lunedì 14 aprile 2008

L'uomo della nebbia

I bambini di Sheldomville, come ogni sera, si infilarono sotto le coperte timorosi del buio, perché nelle ombre si nascondeva il temuto uomo della nebbia.

Ogni genitore ricorreva alla terribile minaccia dell'uomo della nebbia per convincere il proprio bambino ad andare a letto senza fare capricci, facendo leva sulla suggestione che la bruma serale provocava nelle giovani menti.

In effetti Sheldomville veniva avvolta da un morbido abbraccio vaporoso al calar del sole, per poi liberarsene solo dopo l'alba, e la nebbia sembrava custodire i sonni dei popolani della valle di Arten come una coperta premurosa. Se gli adulti riuscivano a godersi il lato romantico di una tale atmosfera raccolti nelle proprie case per la cena, i bambini si affacciavano con gli occhi spalancati alle piccole finestre delle casupole, guardando l'intreccio dei fili argentei che, piano piano, si fondeva a creare un manto compatto e impenetrabile allo sguardo. Era fin troppo facile per loro riuscire a immaginare un evanescente omino senza volto che si aggirava nella coltre grigia e misteriosa, per poi insinuarsi attraverso le assi di legno e giungere fino al letto del dormiente, per dischiudere ai suoi occhi mondi terrificanti e traboccante di orrori innominabili.

Ma Jordy non aveva paura dell'uomo della nebbia e dei luoghi misteriosi di cui era messaggero. Fremeva di curiosità per quei mondi leggendari, in cui si muovevano mostri e razze da incubo. Ogni sera sperava di intravedere una piccola voluta di nebbia infilarsi nello spiraglio che si apriva nell'infisso della finestra, ma si era sempre risvegliato al mattino deluso e impaziente di veder calare di nuovo la notte. La sua fiducia era però incrollabile, perché lui aveva la prova dell'esistenza dell'uomo della nebbia e della magia di cui era portatore.

Difatti custodiva gelosamente da settimane una sfera di vetro, che aveva trovato una mattina in mezzo ai suoi giocattoli. Non aveva mai chiesto agli altri bambini di chi fosse, l'aveva semplicemente fatta sua. Aveva chiamato lo strano oggetto “palla magica” e il nome era decisamente appropriato. La sfera infatti era costituita da un rivestimento di vetro talmente sottile da sembrare quasi inesistente, mentre all'interno non si vedeva altro che un ammasso di nebbia grigia, che a volte sembrava vibrare di vita propria, lasciando intravedere il movimento di alcune volute che andavano a fondersi e morire nella massa circostante. Jordy si convinse subito che quell'oggetto meraviglioso doveva appartenere all'uomo della nebbia, un essere che viveva in mondi ammantati di magia. Non capiva la paura degli altri bambini e pensava che fossero semplicemente troppo codardi per esplorare quegli universi sconosciuti.

Quella sera si infilò nel letto con la stessa speranza di poter dare una sbirciata ai mondi fantastici di cui ormai riusciva a immaginare ogni elemento e dettaglio, ogni creatura e sfumatura di colore. Quando fu sotto le coperte, si accorse che la finestra era rimasta socchiusa ma sentiva troppo freddo per alzarsi e chiuderla. Stava per chiudere gli occhi vinto dalla stanchezza, quando un fruscio attirò la sua attenzione e vide la luce lunare filtrare dalla fessura rimasta aperta e riflettersi su una voluta di fumo argenteo.

Jordy trattenne il fiato e il cuore si mise a galoppargli nel petto, spinto dall'emozione improvvisa e inattesa. Il sottile filo nebuloso si ripiegò in forme sinuose e si espanse nella stanza, continuando ad assorbire il bagliore lunare come se la luce stessa desse forma e consistenza a quella sostanza impalpabile.

Infine, davanti agli occhi di Jordy si delineò la figura magra, quasi scheletrica, di un uomo dai tratti indefiniti. Sembrava indossare una sorta di tunica il cui orlo ondeggiava inquieto appena al di sopra del dorso dei piedi.

Jordy scattò a sedere sul letto, la bocca spalancata in un moto di stupore e meraviglia.

- Sapevo che saresti venuto da me!

L'uomo sorrise, silenzioso, e si avvicinò a Jordy.

- Mi porterai nel tuo mondo?

Lui annuì e il suo sorriso si allargò. Poi allungò una mano verso la sfera che Jordy custodiva sotto al cuscino e la accarezzò con tenerezza, come una madre amorevole farebbe col proprio bambino.

Invitò Jordy a guardare con un gesto della mano, mentre dentro la sfera si agitava qualcosa. Il piccolo rimase stupefatto, perché il movimento della materia evanescente che già aveva visto in altre occasioni era accompagnato da riflessi luminosi che si alternavano a ombre sinuose.

L'uomo avvicinò ancora di più la sfera verso il viso di Jordy e il bambino ne rimase come ipnotizzato. Il gioco di luci e ombre sembrava una danza esotica carica di promesse di meraviglie e per Jordy era come l'avverarsi di un sogno. Il desiderio divenne incontrastabile e Jordy allungò di scatto una mano per afferrare la sfera. Appena toccò la superficie, non avvertì il freddo contatto col vetro, ma le sue dita affondarono nella massa turbinante che ora aveva i riflessi dell'argento e dell'oro. Si lasciò attrarre e plasmare, mentre il suo corpo cominciava a farsi evanescente.

La sensazione fu esaltante e terrificante insieme. La massa nebbiosa avvolse Jordy fino a fondersi col suo corpo, accarezzandolo come una coperta ma allo stesso tempo penetrandolo come migliaia di aghi sottili. Jordy si ritrovò in un mondo senza linee e senza punti di riferimento. Era circondato da un nulla colmato soltato dalla nube argentea che gli volteggiava attorno, in un moto sempre più lento. Infine il turbinio si placò, lasciandolo nel silenzio e nell'immobilità. Provò a chiamare, ma nessun suono uscì dalla sua gola. Si mosse e avvertì semplicemente il suo corpo fluire nella materia fumosa, come una delle tante piccole volute che vi si agitano dentro. Il tempo perse ogni parvenza di regolarità e i secondi divennero anni e le ore semplici istanti tutti uguali.

L'uomo della nebbia accarezzò con amore la sua sfera e la ripose in una tasca nascosta della sua veste. Uscì dalla finestra, confondendosi con la bruma che circondava il piccolo paese. Si avvicinò alla casa dei Mothler e notò alcuni giocattoli abbandonati nel porticato antistante il piccolo edificio. Abbandonò la sfera tra una trottola e alcune corde colorate, poi sorrise e si allontanò leggero, come se non toccasse il terreno.

Ora doveva solo attendere un nuovo invito.



“L'uomo della nebbia” - 7-8 marzo 2008



Racconto partecipante alla prima fase della V edizione del concorso "La fossa" indetto sul forum di Scheletri.com; classificatosi per la seconda fase (ancora in corso).


Pubblicato anche su http://lnx.dittaferrara.it/epress


mercoledì 9 aprile 2008

La verità del silenzio

Reldan, l'uomo che si è occupato di me sin dall'infanzia, sta morendo in un letto davanti ai miei occhi. Il petto vecchio e stanco si solleva a fatica e gli occhi si aprono sempre più raramente. Ascolto i suoi rantoli agonici con tristezza e curiosità al tempo stesso, perché sono i primi e gli ultimi suoni che sento emettere da quest'uomo, che per tutta la sua vita non ha mai parlato. Mentre gli tengo la mano, prego perché il trapasso sia per lui il più possibile indolore, ma sento che il suo respiro affannato gli provoca una sofferenza che non potrà mai descrivere.

- La... la strada...

Sussulto, mentre il cuore sembra paralizzarsi. Reldan ha parlato veramente o è stata la mia immaginazione?

- La strada è ancora aperta...

Il tempo sembra cristallizzarsi attorno a me, mentre ascolto le parole che mai sarebbero dovute uscire da quella gola offesa. Ora sembro io il muto, mentre le labbra di Reldan si muovono tremanti, cercando di comporre suoni comprensibili. Lo guardo e riesco solo a pensare che non può essere vero, che forse mi sono appisolato al capezzale di colui che è stato come un padre silenzioso per tutti questi anni e che sto sognando ciò che ho desiderato per tutta la vita. Ma la bocca del vecchio si apre ancora una volta, sussurrando:

- La porta, la strada... puoi tornare a casa...

Inebetito dalle sue parole, mi rendo conto soltanto ora che sta parlando con me e di qualcosa di cui avevo smesso di pormi domande tanto tempo fa. Quante volte gli avevo chiesto da dove venissi, chi fossero i miei veri genitori o anche solo dove mi avesse trovato. Mi guardavo allo specchio, osservando i miei capelli neri e gli occhi grigi, così diverso nella fisionomia dalle persone che conoscevo, e desideravo sapere qualcosa, un qualunque dettaglio, sulle mie origini, ma lui non aveva mai potuto rispondere alle mie domande. Si limitava a sorridermi e a indicarmi i libri della grande biblioteca impolverata, come a dire che soltanto lì avrei trovato le mie risposte.

Ma fra i tanti tomi, alcuni talmente antichi da pensare che fossero stati creati col mondo stesso, non avevo trovato nulla che potesse indicarmi la mia origine. Se solo Reldan avesse saputo scrivere, forse avrebbe potuto dirmi di più. Invece non poté mai neanche scarabocchiare su un pezzo di carta qualcosa che potesse dirmi del mio passato e della mia origine. E né i servitori che mi sono stati sempre accanto, né il tutore che mi diede un'istruzione erano a conoscenza del mio passato o del luogo in cui Reldan mi aveva trovato. Sembrava che soltanto lui avesse le risposte e, per una beffa del destino, non poteva comunicarmele. E per questo, un giorno, smisi di porre domande.

Ora però quest'uomo che credevo muto sta parlando. E se fosse sempre stato in grado anche di leggere e scrivere? Come ha potuto ingannarmi per tutti questi anni? Nella mente si accavallano così tante domande che l'unica cosa di cui sono certo è il dubbio.

Reldan spalanca gli occhi e gira la testa di scatto verso di me. Il movimento è talmente repentino che salto sulla sedia spaventato, come se vedessi un fantasma. O meglio, è come se vedessi uno sconosciuto, una persona di cui credevo sapere tutto e che invece si presenta a me in una veste completamente nuova proprio ora che sta esalando il suo ultimo respiro.

- Credo di doverti chiedere scusa, ragazzo mio, per gli anni di silenzio a cui ti ho condannato. Ma soprattuto per non aver mai dato soddisfazione alle tue domande. Quanto vuoto devi sentire dentro per ciò che eri e non conosci.

Provo a parlare ma la lingua sembra paralizzata. I ruoli sembrano essersi invertiti e lo lascio continuare. Ora prego perché il suo trapasso sia il più lontano possibile, che il tempo fermi per qualche istante la sua corsa.

- Forse sarei dovuto arrivare alla tomba silenzioso così come mi hai sempre conosciuto, ma che gli Inferi mi accolgano se ti lascio in questo mondo senza dirti che hai una casa e che esiste ancora la strada per tornarci.

Prende un ampio respiro e l'aria sembra non voler uscire dai polmoni. Diventa cianotico in volto e temo che mi abbandoni proprio ora. Invaso da un senso di rabbia che non credevo potesse esistere nel mio animo, la voce mi esplode in gola:

- No! Non puoi morire ora! Devi parlare!

Reldan riprende a respirare, sempre più faticosamente.

- Capisco il tuo rancore, ma credimi se ti dico che l'ho fatto per proteggerti.

Il mio sguardo si sta infiammando, non so se per il furore o per le lacrime. Continuo a chiedermi come l'uomo che tanto mi ha amato sia stato anche in grado di farmi crescere in un'eterna menzogna.

- E se non ti ho mai rivolto la parola, è stato per non mentirti.

La sua affermazione mi fulmina. E' vero, non ha mai proferito falsità. Ma il silenzio non è stato ugualmente una bugia perpetrata negli anni, più insidiosa di qualunque parola potesse mai dirmi?

Cerco di mantenere la calma, agognando infine la verità. So che non può mentire ancora.

- C'è però una cosa su cui non ti ho mai ingannato: i libri. In essi sono custodite le tracce che ti riporteranno a casa.

La mia voce esce roca, come se le mie corde vocali lottassero contro il groppo che mi ha annodato la gola:

- Non ho mai trovato nulla in quei libri. Sono solo trattati di storia e raccolte di novelle.

- E che altro sarebbe la storia se non il nostro passato e le novelle ciò che viene rivelato sulle nostre vite?

Ora penso che sia pazzo. Forse l'agonia lo sta facendo sragionare. Ma voglio lasciarlo parlare, voglio ascoltare la sua voce infame fino alla fine.

- Se ben ricordi, c'è stato un libro che hai amato sin da quando il signor Gorian ti ha insegnato a leggere. Lo portavi sempre con te e non ti stancavi mai di leggere le storie di fate e folletti.

- Erano solo favole.

- La tua vita è una favola. Il mondo da cui provieni è per i più soltanto un luogo esiliato nelle fantasie dei bambini. Ma a volte si aprono porte che portano in questa realtà cose che gli uomini non vogliono vedere e accettare. Quando richiusero il varco, cancellarono ogni segno potesse ricordare loro che esistevano altre realtà, fantastiche e spaventose allo stesso tempo. Ma non riuscirono a eliminare anche te. Lottai per portarti via dalle loro mani assassine e ti tenni con me, avvolgendo me stesso nel silenzio per non doverti mentire, consapevole che la verità avrebbe portato a conseguenze disastrose. Sapevo che se ti avessi detto tutto al momento sbagliato, quando era ancora troppo presto perché tu comprendessi, sarebbe stata la rovina. La tua è una razza romantica e sognatrice, ma anche capace di vendette violente e di gesti inconsulti. Ma ora sei grande, ragazzo mio, e puoi affrontare la conoscenza senza lasciartene possedere. So che sceglierai con giudizio, sia che tu decida di rimanere in questo esilio o di cercare la strada per tornare a casa.

Gli occhi di Reldan si richiudono lentamente, un rantolo è l'ultimo suono che sento, prima che il silenzio ricada tra noi, così com'era sempre stato. Il volto di Reldan diviene sfumato mentre le lacrime di rabbia e tristezza mi riempiono gli occhi. Come un automa mi alzo, gli accarezzo il volto e vado in cerca del libro.

Lo trovo in uno scaffale basso della biblioteca, con un angolo preso in prestito da un ragno per la sua casa. Sfratto l'inquilino e lo prendo con delicatezza, come se fosse un'antica reliquia. Avevo dimenticato il disegno del portale fiorito sulla copertina, che mi aveva affascinato per la sua somiglianza col portone del roseto, quello che dava sulla brughiera e che non veniva ormai utilizzato da nessuno. Non avevo mai attraversato quel portone, non più accessibile da anni a causa dei rovi che vi erano cresciuti attorno.

Mi ritrovai a ridere come uno sciocco, pervaso da una sensazione insieme di felicità e di smarrimento. Tornai al capezzale di Reldan e salutai un'ultima volta l'uomo che, nella sua prigione di silenzio, aveva sempre evitato di mentirmi, permettendomi ora di credere alle sue uniche parole, le sole mai pronunciate al mio cospetto.



“La verità del silenzio” - 21 gennaio 2008



Racconto partecipante al 10° Concorso di Narrativa e Poesia indetto dal Comune di Lagosanto (FE).


giovedì 3 aprile 2008

Il decimo cerchio

Elia era un demone. Di questo era certo.

La prima volta che aveva incontrato le ombre aveva pensato che sarebbe morto, col cuore imbizzarrito e i polmoni che sembravano lottare contro un peso invisibile che voleva schiacciarli. Invece non solo era sopravvissuto, ma aveva compreso che esse non avevano intenzione di ucciderlo, bensì di aprirgli una porta. Aveva sbirciato appena oltre la soglia dell'Abisso ed era rimasto terrorizzato da quell'oscurità densa come l'inchiostro.

Le notti seguenti aveva cercato il conforto di una piccola luce da camera per tenere lontane le ombre, ma le percepiva comunque attorno a sé e sapeva che, non appena avesse abbassato la guardia, gli sarebbero state di nuovo addosso, ghermendo il suo collo con dita sottili e implacabili.

Ogni volta, quando sentiva che la vita stava per abbandonare il suo corpo, Elia affondava il viso nella massa oscura che lo circondava e respirava l'acre odore che risaliva dall'Abisso. Non vi era niente oltre quella soglia, soltanto altra oscurità.

Lentamente, notte dopo notte, cominciò a comprendere ciò che le ombre volevano da lui. Sentiva il loro richiamo, come quello di una madre angosciata che cerca di ricondurre a sé il proprio figlio. Poteva udire, al di là della soglia, la voce calda e rassicurante di un padre che lo attendeva a braccia aperte. Gradualmente la notte divenne il momento in cui rifugiarsi, mentre i giorni non erano diventati altro che un susseguirsi di ore svuotate di ogni senso, un'attesa estenuante verso il rifugio del silenzio e della veglia. La vista degli esseri umani diveniva di giorno in giorno più irritante, gli parevano soltanto piccole sagome senza vigore che cercavano di non lasciarsi sopraffare dalla vita stessa. Lui non poteva appartenere a quella stirpe di menti apatiche, di esseri che non comprendevano la bellezza della notte e non cercavano i tesori in essa racchiusi. I suoi sentimenti erano ben più vivi e violenti, i suoi desideri impronunciabili, la sua rabbia incontenibile.

Elia infine comprese che se le ombre lo chiamavano con tale insistenza era perché lui apparteneva a loro, da esse era stato generato e da esse derivava la sua più intima natura. Fu in una notte di novembre, nel letto mezzo disfatto, che Elia decise di oltrepassare la soglia, di raggiungere i suoi simili, esseri che lo avrebbero accolto in un mondo che potesse finalmente sentire suo. Allargò le braccia perché le ombre potessero avvolgerlo interamente ed esse si insinuarono tra le pieghe del pigiama, sfiorandogli la pelle, e poi su verso il suo viso, lambendolo con un tocco delicato e gelido al tempo stesso. Si spinsero nelle narici, nella bocca, giù per la gola, in spirali sempre più frenetiche. Elia sentì il respiro farsi sempre più lieve, mentre il torace si alzava e si abbassava appena. E fu dall'altra parte.

Le ombre si dissiparono, lasciando Elia in un paesaggio a lui sconosciuto, ma in qualche modo familiare. Alberi contorti e dal tronco annerito crescevano come seguendo le linee disegnate da un geometra folle, privo di senso dell'armonia. I rami piegavano verso il basso, come a voler fuggire dal cielo nero, privo di stelle. Sotto ai piedi Elia avvertì lo scricchiolare di sterpaglie secche, ma quando abbassò lo sguardo vide che i fili d'erba somigliavano più a lunghe e sottili ossa carbonizzate che a steli. L'orrore tentò di insinuarsi dentro Elia, ma in fondo lui era un demone dell'Abisso e quella era casa sua. I demoni si nutrivano dell'orrore, per cui doveva soltanto avere fiducia.

Nessuna luce illuminava i suoi passi, ma Elia percepiva lo spazio attorno a sé e gli oggetti che l'occupavano, perché ogni cosa era composta di ombra e lui era in comunicazione con l'oscurità stessa. Allo stesso modo avvertì la presenza di una figura che si stava avvicinando a lui. Una sagoma enorme, più alta di qualsiasi essere umano, gli si stagliò davanti. La sua pelle nera e spessa come cuoio ricopriva un corpo possente e completamente nudo. Sul suo volto ferino scintillavano due occhi neri come petrolio e una criniera corvina gli scendeva dall'apice della testa lungo la schiena.

- Benvenuto a casa, figlio mio.

Elia non avrebbe potuto chiedere di più. Si lanciò ad abbracciare la creatura che gli stava dinnanzi, ma il demone nero lo scostò da sé.

- Non è ancora certo che tu sia della mia stirpe. Vieni, voglio farti vedere gli uomini che sono giunti sin qui. Se dimostrerai indifferenza di fronte a tutti loro, allora potrai elevarti sopra la loro razza.

Elia non attendeva altro. Seguì la sua guida nell'oscurità, attraverso una porta di pietra grigia, sormontata da un architrave riportante una scritta che non fu in grado di leggere a causa del buio. Si chiese se avrebbe dovuto compiere quel viaggio continuando a sforzare la vista nel tentativo di vedere qualcosa. Non scorgeva sagome, ma udiva lamenti attorno a sé, che lo infastidivano e lo spingevano ad accelerare il passo.

Infine, l'Abisso si spalancò davanti ai suoi occhi, in tutta la sua magnificenza. Elia passò tronfio davanti a creature crudeli e spaventose, attraversò senza cedimenti orde di uomini nudi e sofferenti, si compiacque della propria insensibilità nei confronti delle debolezze umane, che lo avrebbero portato a strisciare nel fango o sfracellarsi contro le rocce sballottato dai venti infernali. Passò oltre la città di Dite, con le sue alte torri, fu portato a cavallo di centauro oltre il fiume di sangue ribollente, camminò in silenzio nel bosco degli alberi contorti e feriti.

I piedi di Elia calpestarono infine il ghiaccio. Solo allora si rese conto di essere scalzo, con indosso il pigiama stropicciato e sudato. Rabbrividendo, seguì il demone nero sopra il grande lago ghiacciato, lasciandosi alle spalle il caotico brulichio dei cerchi superiori. Era arrivato all'ultimo e finalmente il suo mentore e guida avrebbe compreso che lui era diverso, perché lui apparteneva a quel mondo e non ne aveva paura.

Ma al centro del lago, nel punto più profondo e desolato, non c'era ciò che Elia si sarebbe aspettato. Nel ghiaccio si apriva invece una fessura, larga appena perché un uomo potesse passarci attraverso. Elia osservò la sua guida con aria interrogativa e il demone gli concesse una spiegazione:

- E' l'ingresso per l'ultimo cerchio.

- L'ultimo cerchio?

- Sì, il decimo. Qui pervengono coloro che, invece di dissacrare il proprio corpo, lo ignorano. Coloro che non umiliano l'anima col peccato, ma la rifiutano.

Il demone nero invitò con un gesto della mano Elia ad attraversare la fenditura nel ghiaccio.

- Tu non vieni con me?

- No, il decimo cerchio non è per noi creature infernali. E' solo per gli uomini, perché solo loro possono rinunciare alla propria natura. Noi demoni condividiamo le passioni umane, perché originate dalla stessa fonte, ma non possiamo rifiutare qualcosa che non abbiamo.

Elia non era sicuro di aver compreso appieno le parole del demone nero, ma non volle mostrare titubanza, per cui annuì e mosse un passo verso la spaccatura che sembrava una cicatrice scura sulla superficie luccicante del lago ghiacciato. Ma non appena il suo piede le fu sopra, Elia sentì che il suo corpo veniva risucchiato verso il basso. Il ghiaccio non offriva appigli e le sue unghie scivolarono con uno stridio senza riuscire a frenare la sua caduta. La fessura lo inghiottì come una bocca affamata a digiuno da un tempo immemorabile ed Elia si ritrovò in un'oscurità più profonda di quella a cui si era abituato nelle sue notti insonni. Sembrava che un'unica ombra sterminata riempisse ogni cosa, plasmandosi per formare lo spazio e il tempo.

Quando urtò contro quello che doveva essere il fondo, Elia ebbe l'impressione di essere precipitato per un'eternità contratta in pochi istanti. Non provò dolore all'urto, ma lo spaventò il non aver udito il rumore dell'impatto. Si alzò in piedi tremante, mentre attorno a sé cominciavano a divenire visibili le pareti di un profondo crepaccio. Guardando in alto non si distingueva dove terminavano e delimitavano una sorta di corridoio infinito che non sembrava provenire da nessun luogo particolare né tanto meno condurre da nessuna parte. Il sentiero grigio che si snodava sul fondo del crepaccio spariva dietro larghe curve, per cui Elia aveva sia di fronte che dietro lo stesso paesaggio. Indeciso sulla direzione da prendere, si incamminò dalla parte verso la quale si era rialzato.

Per istinto si avvicinò alla parete di destra, sfiorandola con la mano e traendo conforto dalla sensazione di avere un punto di riferimento da seguire. La roccia era liscia, del colore del catrame, senza alcun appiglio visibile. Pensare di scalarla era pura follia, ma Elia non voleva risalire, voleva soltanto percorrere il fondo del crepaccio per vedere dove portava.

Camminò senza sosta per ore, seguendo le svolte dolci del percorso, e gli occhi di Elia si erano ormai adattati all'oscurità. In realtà sembrava che l'ombra stessa avesse deciso di farsi meno densa, come un velo attraverso il quale intravedere il mondo, ma soltanto in una lugubre tonalità di grigio. Lo sguardo non poteva però spaziare mai troppo lontano, perché ogni curva determinava lo spazio che gli era possibile sondare.

Elia cominciò ad avvertire la stanchezza, un esaurimento dello spirito prima che un indebolimento dei muscoli. Sospirò, desiderando che quel percorso giungesse al termine e osservò di nuovo in alto, in quel cielo nero senza stelle, chiedendosi come mai non avesse ancora incontrato nessuno. La solitudine si riversò nel suo animo come una piena improvvisa ed Elia sentì che non aveva la forza per sopportarla. Gridò ma nessun suono si propagò nell'ombra che riempiva ogni spazio. Allora si sedette e pianse. La disperazione sgorgò sotto forma di lacrime scure, mentre i singhiozzi continuavano a svanire nel silenzio demoniaco che uccideva ogni suono.

Aveva visto le miserie umane e ne aveva provato solo disprezzo, aveva udito i lamenti dei dannati e ne era stato infastidito. Ma ora era lui a soffrire, a rimpiangere la luce.

- Sai perché ti senti straziato?

La voce del demone nero gli fece alzare lo sguardo, ma non era l'infernale creatura a sovrastarlo, bensì un uomo, dall'età indefinibile e dai lineamenti anonimi. Elia lo guardò spaventato, come se quella visione fosse più terribile della fiera infernale.

- E' forse un'illusione?

- Un'illusione dici? Trovi di somigliare di più alla creatura che ti ha accolto in questo luogo o a quella che si trova ora davanti a te?

Elia osservò le proprie mani, macchiate delle lacrime nere.

- Non importa se ho l'aspetto di un uomo. Io appartengo alle ombre!

- Tu credi che la tua sia rabbia, disprezzo per il genere umano che ti è inferiore. Ma ti dico questo: è solo disperazione. Non accetti gli uomini perché non accetti te stesso e ti consumi nell'ombra perché sei troppo debole per alzare il viso alla luce.

- Tu menti! Le ombre mi chiamavano!

- Era solo l'eco dei tuoi pensieri. Stavi chiamando te stesso, cercandoti nell'Abisso in cui ti sei perduto. Ora, vuoi rimanere qui, nella desolazione di chi ha rinunciato a essere, o vuoi tornare nella tua piccola e triste stanza, affrontare la notte e tornare a essere un uomo al sorgere del sole?

- Ho forse scelta?

- Certo. Pensi che tutti coloro che hai visto quaggiù non l'abbiano avuta?


Elia si alzò e osservò la parete di roccia alle sue spalle. Solo ora intravide alcuni appigli, piccoli e malsicuri, che prima non aveva notato, o forse non c'erano mai stati.

- Sarà una risalita difficile. Pensi di farcela, uomo?

Elia non rispose, ma con la mano destra afferrò un appiglio a un paio di metri da terra. Appoggiò il piede sinistro su una sporgenza più in basso e contrasse i muscoli. La prima spinta fu faticosa, dolorosa, per il suo corpo sfinito. Riappoggiò il piede a terra, ansimando.

L'uomo rise alle sue spalle ed Elia sentì la vergogna che si spandeva sul suo viso, come una fiamma alimentata dai frammenti di orgoglio sparsi nella sua anima. Avrebbe voluto rinunciare, ma doveva per forza andarsene da quel luogo. E l'unica via d'uscita era in alto.

Riprese la scalata e tentò di ignorare il dolore. Gli spasmi ai muscoli rischiarono di farlo rovinare a terra, ma la mano sinistra trovò un appiglio un po' più in alto e i piedi la seguirono. Un centimetro alla volta, il fondo si allontanava ed Elia lo avvertiva, anche senza guardare in basso, sentiva che l'ombra si faceva meno densa, lasciando che il fruscio del suo corpo sulla roccia si propagasse. Il suono, dapprima impercettibile, lo confortò e si scoprì felice di risentire anche il battito del suo cuore, accelerato dallo sforzo fisico, ma pulsante, vivo.

Il cielo cominciò a sbiadire e l'orlo del baratro divenne finalmente visibile. Non era così distante come si sarebbe aspettato ed Elia affrontò l'ultima parte della scalata con entusiasmo. Scavalcò infine il bordo e si sedette con la gambe penzoloni, ansimando e ridendo. Elia scrutò nelle profondità del baratro e si stupì di non vedere più il fondo, che aveva toccato coi suoi stessi piedi. Si alzò e si allontanò dal bordo, ma sapeva che il baratro sarebbe stato sempre lì, pronto a trascinarlo giù ogni volta che avesse di nuovo accolto le ombre dentro di sé. Ma il suo cuore batteva e non era un cuore da demone.



“Il decimo cerchio” - 18 gennaio 2008



Partecipante al concorso "Scrivo dunque sono!" indetto dal Caffè Storico Letterario Giubbe Rosse.