venerdì 22 aprile 2011

Game of Thrones - Ep. 1 "Winter Is Coming"

E' la prima volta che recensisco qualcosa di diverso da un libro. Quando diedi nuova vita a questo blog con le recensioni, pensavo di dedicarmi anche a musica e film, ma poi non l'ho mai fatto.
La visione di ieri sera però, a seguito anche di un piccolo confronto, mi ha scatenato alcune riflessioni che mi piacerebbe condividere con voi che leggete (migliaia di persone, presumo!).
Dopo una trepidante attesa di mesi, è finalmente andato in onda il primo episodio di Game of Thrones (per chi non lo sapesse, la trasposizione televisiva delle Cronache del ghiaccio e del fuoco di George R. R. Martin).
Da giorni i fan inondavano Facebook di commenti entusiasti (dal 17 aprile per la precisione) e io non vedevo l'ora di ritagliarmi un'oretta per piazzarmi davanti alla TV e godermi la puntata incurante dell'inglese (e forte dei sottotitoli).
Il commento a caldo è stato "Beh, cavoli, è fatto proprio bene!". Ho provato un brivido di piacere nel vedere la Barriera, il Parco degli Dei, i personaggi descritti con tanta dovizia e, devo ammettere, presentati con le facce giuste.
Invece le altre persone presenti alla visione non mi sono sembrate molto partecipi. In effetti mia madre e mia suocera potrebbero non aver apprezzato molto le scene gratuite di violenza e di sesso, ma vedere mio marito annoiato (se non schifato) mi ha portata a ripensare all'episodio con gli occhi di chi i libri non li ha letti e che si è trovato di fronte una sequela di scene un po' sconnesse e con dialoghi a dir poco minimali.
Per cui stamattina sotto la doccia mi sono ritrovata a riflettere sul perché un prodotto tanto atteso e osannato potesse risultare non dico brutto ma, ancor peggio, di poco conto per un pubblico senza particolari aspettative.

Con la maggiore obiettività di cui sono capace, posso affermare che il 1° episodio:
  • è lento
  • manca di dettagli dell'ambientazione
  • contiene scene truci, crude e di sesso sfrenato in sovrabbondanza rispetto al  romanzo
  • risulta eccessivamente frammentato
Vediamo di sviscerare un po' questi punti (i primi due li ho trattati insieme).

Anche i romanzi accusano una certa lentezza, soprattutto andando avanti, sia per l'affollamento sempre maggiore di personaggi sia per la passione maniacale di Martin per i dettagli visivi e narrativi.
Eppure il primo libro me l'ero letto tutto d'un fiato, trovandolo appassionante e scorrevole, mentre questo primo episodio, della durata onesta di un'ora tonda, è sembrato infinito.
Come mai, visto che la trasposizione è stata alquanto fedele?
In realtà è proprio per questo motivo.
Martin è molto bravo nell'utilizzare lo show-don't-tell, però lo riserva soltanto alle scene d'azione o maggiormente drammatiche. Ci sono lunghi capitoli in cui il racconto prende il sopravvento sul mostrato, per rendere il lettore partecipe di un'ambientazione a lui estranea e nella quale i personaggi giustamente si muovono e vivono senza farsi domande idiote del tipo "Mamma, ma la Barriera chi l'ha costruita?" "Caro piccolo Bran, terzo dei miei figli, la Barriera è stata eretta da Tizio e Caio e bla bla bla".
La gente conosce il mondo in cui è nata, ma il lettore ha bisogno di alcune informazioni per sentirsi di più "a casa".
Ecco, se questo in un romanzo può essere fatto più o meno magistralmente, e comunque concedendo allo scrittore la possibilità di spostarsi di tanto in tanto dal punto di vista di un personaggio per abbracciare il mondo dall'alto e potercelo descrivere nei dettagli, in un film la voce fuori campo sarebbe un'oscenità.
Però, proprio per questo senso di fedeltà ai romanzi, gli ignari spettatori possono godersi azioni e dialoghi così com'erano in originale, ma rimangono a bocca asciutta sui particolari dell'ambientazione, proprio quelli che ai lettori appassionati avevano fatto venire i brividi, per il connubio intrigante di pseudo-storia medievale ed elementi fantasy centellinati fin dalle prime pagine e poi via via sempre più presenti.
Che significato ha un albero bianco con le foglie rosse? Sembra fare solo scena.
Chi è 'sto nanetto che compare in scena con una donna nuda addosso e un'erezione da competizione? Sarà mica un personaggio serio!
E via discorrendo.
Le scene si susseguono con dovizia di particolari ma senza un contesto che le giustifichi. I dialoghi sono frasi smozzicate con riferimenti continui a elementi che lo spettatore non ha in mano e, forse, non avrà ancora per molto tempo.

Ed eccoci quindi al terzo punto. Si è insistito così tanto sul mostrare e basta che si è addirittura accentuata la presenza di scene crude e spettacolari. Se posso perdonare l'amplesso tra Jaime e Cersei (molto più soft nel romanzo) e la buffonata di Tyrion nel bordello, mi ritengo molto delusa per la superficialità con cui è stata trattata la scena della prima notte di nozze tra Daenerys e Khal Drogo, a mio avviso uno dei momenti più toccanti di tutti i romanzi (ma come si dice, de gustibus...).
E' un peccato che abbiano ceduto alla tentazione di mancare di fedeltà ai romanzi proprio su questi argomenti, mostrando la chiara volontà di stupire e scandalizzare piuttosto che di mostrare un mondo già abbastanza crudo di suo.

Questo si lega in parte al quarto punto. E' vero che nei romanzi si passa dal punto di vista di un personaggio a quello di un altro a ogni capitolo, però la lettura di un libro concede tutto il tempo necessario per entrare nell'ottica di un personaggio, di percepire e annusare l'ambiente in cui si muove, mentre in video è tutto più rapido e il risultato finale è una sequela frammentaria di scene, in cui si perde spesso e volentieri il filo del discorso.
Anche se l'intreccio non è ancora così contorto, è difficile mettere insieme questi primi pezzi del puzzle. Non si capisce bene dove succede cosa e com'è organizzata la società, al di là del fatto che c'è un re e della gente che gli può rispondere solo sì.

Insomma, non sono delusa ma non sono neanche così impaziente di vedere i prossimi episodi. La mia curiosità sulla trasposizione è stata soddisfatta e ora come ora, se proprio sentissi la necessità di un riassunto in vista dei prossimi romanzi, penso che propenderei verso una rilettura dei libri.

venerdì 31 dicembre 2010

Isaac Asimov - Neanche gli dei

Devo fare pubblica ammenda: è il primo romanzo di Asimov che leggo, anzi, è la sua prima opera in assoluto su cui metto le mani.
Devo dire che mi sento parecchio in difetto per essere approdata così tardi su un autore tanto blasonato, ma forse, come sempre, certi libri arrivano quando è il momento giusto per leggerli e apprezzarli a dovere. Sono quei libri che aprono alcune porte segrete dello spirito e danno accesso a luoghi straordinari in cui la mente si perde ammaliata.
Non ho idea se "Neanche gli dei" sia uno dei migliori romanzi di Asimov, ma di sicuro è uno dei più belli che io abbia mai letto. E non perché sia scritto in modo particolarmente magistrale (Asimov è un ottimo narratore ma non al di sopra di tanti altri) o per la sorprendente originalità (anche se si respira sense of wonder ad ogni pagina).
Sono la profondità e l'umanità dei personaggi a renderlo un piccolo capolavoro nell'ambito del fantastico, aspetto così troppo spesso trascurati (e non sempre involontariamente). Decorare i personaggi con vizi e virtù li rende forse meno epici, ma decisamente più eroici.
Il romanzo è suddiviso in tre capitoli, di cui il primo rappresenta il grande antefatto, mentre il terzo ha il ruolo di concludere la vicenda. Entrambi sono ambientati nel nostro mondo, mentre il secondo ci trasporta in un universo parallelo, legato al nostro per via della sconvolgente innovazione tecnologica che fa da motore a tutta la storia.
E' proprio in questo capitolo centrale che il romanticismo e la bravura di Asimov la fanno da padroni. E' commovente, tenero, emozionante. Non importa quanto gli elementi siano estranei alla nostra visione del mondo, quanto Asimov si sia divertito a creare un mondo dove sembra tutto diverso. E' proprio in queste pagine che è più facile immedesimarsi, è l'alienità del contesto associata a sentimenti a noi noti che permette la magia e ci lascia a bocca aperta.
Sfido chiunque (a parte i fisici accademici! ^^) a infilarsi più facilmente nei panni di un fisico accademico piuttosto che in quelli di un padre di famiglia apprensivo e preoccupato che tutti stiano bene. Se poi la famiglia ha una struttura sociale (e fisica) completamente differente da quella a cui siamo abituati, è solo più divertente, no? E ci insegna molto più di quello che ci saremmo aspettati da un romanzo fantastico.

lunedì 1 novembre 2010

Ester Manzini - L'abbraccio delle ombre

Ci risiamo. Abbiamo un autore (un'autrice in questo caso) alle prime armi, tanta buona volontà, la sensazione di aver tirato fuori qualcosa di nuovo dal cassetto, accenni di un'originalità che soffocano dopo poche righe sommersi da cliché che, a quanto pare, è impossibile spazzare via dal fantasy.
Abbiamo degli elfi (evviva...), elfi rinnegati per la precisione (wow...), che giustamente, vivendo sottoterra, hanno l'aspetto di essere albini (questo almeno ha un senso logico). Ma se ci siamo presi la briga di ridisegnare gli elfi del sottosuolo in una chiave diversa, perché mai andare a ripescare la società matriarcale in perfetto stile drow? Perché sprecare così questo piccolo sprazzo di novità?
E la situazione non cambia proseguendo nella lettura di un romanzo che ha continuamente la pretesa di ribaltare le tematiche classiche del fantasy, non solo non riuscendo a svincolarsene, ma accentuandole come in quasi tutti i romanzi che mi sono capitati tra le mani negli ultimi mesi.
Anche i protagonisti, antieroi dalla fedina penale macchiata, alla fine non si discostano dai mascalzoni intelligenti e simpatici a cui siamo ormai abituati da tempo. Come sa di già visto l'intreccio fra due fratelli che non sanno l'uno dell'esistenza dell'altro ma che il destino (sempre lui, questo guastafeste!) porrà sullo stesso percorso.
E allo stesso modo abbiamo per antagonista il solito cattivone folle e senza scrupoli che gode solamente della disgrazia altrui e cammina nel mondo solo per smania di potere e sofferenza. Non si pretendono personaggi dal profilo psicologico complesso, ma quanto meno mossi da interessi personali quali l'egoismo o l'arrivismo.
E poco conta se il romanzo è scritto in italiano corretto: lo stile è scorrevole ma non a sufficienza da rendere la narrazione fluida e piacevole, così come lo "show don't tell" piange sconsolato nell'angolo impolverato della qualità narrativa.
Ma al di là di tutto c'è una cosa che mi manca profondamente leggendo questa serie di romanzi fantasy: il sense of wonder. Non si viene colti di sorpresa da nessun colpo di scena, gli avvenimenti sono telefonati e una pagina dopo l'altra si arranca apaticamente attraverso una storia che non coinvolge e non cattura nel mondo (poco) fantastico in cui si snoda. E' un vero peccato, perché il fantasy (soprattutto quello italiano) sta perdendo una schiera di affamati lettori che si stanno rassegnando a mangiare le lasagne invece della torta. Non che le lasagne non siano buone, ma noi avevamo voglia di torta...

mercoledì 15 settembre 2010

Robert L. Stevenson - La freccia nera

Troppo spesso tendo purtroppo ad associare l'idea del romanzo d'avventura al racconto fantastico. Inoltre, per mia deformazione scolastica, sono portata a tenere a distanza i romanzi storici, perché da brava capra in materia mi sento sempre sopraffatta dalla presenza di nomi, date e relazioni a me ignoti. Questa volta, dietro spassionato consiglio (arrivato dopo aver aperto e richiuso alla seconda pagina l'ennesimo fantasy ribollente di banalità), ho messo da parte ogni remora e mi sono tuffata tra le pagine di questo testo.
Complici le lunghe ore di inattività dovute alla cura del pupo, la lettura è stata intensiva e scorrevole, fin troppo. Perché mi tocca ammetterlo, è stato uno di quei libri che è finito troppo presto.
Lo stile di Stevenson è talmente piacevole, curato, ironico, ritmato, che la narrazione è un flusso senza interruzione, una corrente che porta la mente con sé lungo corsi imprevedibili.
La storia ricalca con qualche variazione sul tema quella di Robin Hood (anche se in rete non ho trovato alcun riferimento su un'ipotetica ispirazione) e possiede lo stesso sapore avventuroso del Robin di Costner come l'atmosfera giocosa da fiaba del film della Disney: insomma, il meglio dei due mondi, con l'indubbio vantaggio che Stevenson è arrivato un pelino prima! E, per quanto sembri sempre la stessa storia, non la si percepisce mai come banale. I colpi di scena non mancano e non si riesce a mollare la presa sul libro.
Anche i personaggi e i rapporti interpersonali, per quanto possano apparire tali, non sono affatto archetipici. Gli equilibri mutano in continuazione e le convinzioni personali sono in perpetuo mutamento.
Sarà sì un racconto d'avventura, ma di qualità più che elevata. Chissà perché al giorno d'oggi generi come questi vengono spesso relegati al livello del dilettantismo più disperato. Non credo che un genere debba essere meno ricercato soltanto perché destinato a un pubblico giovane o magari poco esigente. Non dovrebbe esistere una letteratura di serie A e una di serie B, in quanto l'autore (come mi sono trovata ad affermare già in passato) dovrebbe sempre e comunque portare rispetto ai propri lettori, non fosse altro che questi sborsano (non pochi) soldi per mettere le mani sul prodotto finale.
E se per alcuni aspetti le colpe sono imputabili agli editori, la mediocrità dell'autore rimane sempre la discriminante principale.
Quindi vi darò lo stesso consiglio che è stato dato a me: se avete voglia di avventura, ma soprattutto se volete leggere un romanzo che vi darà la giusta misura di come deve essere scritta una storia di avventura, leggetevelo e sappiatemi dire.
E se avete problemi con la storia, testi come "La freccia nera" possono aiutarvi molto più di quanto possiate immaginare. Quanto meno la curiosità di andarvi a spulciare wikipedia per capirci qualcosa dovrebbe venirvi!

martedì 7 settembre 2010

George Orwell - 1984

NB: Pericolo spoiler!

Recensire un grande classico è sempre difficoltoso. Si rischia di cadere nella banalità del già detto o, per contro, di sparare a zero cedendo alla tentazione del giudizio contro corrente.
Già accostarsi a un romanzo che viene presentato come un capolavoro mette in moto una serie di pregiudizi sulla sua qualità: ci si aspettano grandi cose ma allo stesso tempo si affronta la lettura con uno spirito critico acuito.
Ecco uno dei pochi casi in cui il testo non solo ha mantenuto ogni promessa, ma l'ha addirittura superata.
Non avevo mai letto nulla di Orwell e non so se gli altri suoi lavori siano scritti con altrettanta maestria, ma sono rimasta profondamente colpita dalla qualità non solo della storia (già preannunciata), ma anche dello stile e della cura del contesto.
Nessun scivolone, nessuna caduta di stile. Già questo dovrebbe essere sufficiente per convincersi a leggerlo.
La stessa cura concessa alla lingua è stata inoltre posta nel dipingere il mondo in cui si muove la vicenda. Angosciante, schiacciante, senza un barlume di speranza all'orizzonte.
Nei giorni seguenti mi sono concessa un altro bellissimo classico, "La freccia nera" di Stevenson (di cui scriverò presto una recensione), e mentre mi godevo questa lettura leggera e scorrevole ho realizzato di quanto siamo abituati a seguire personaggi che, una disavventura dopo l'altra, hanno sempre una porta aperta in cui infilarsi, fosse anche quella della morte.
Invece in "1984" ogni speranza viene disattesa, a ogni disillusione ne segue un'altra, fino allo spiazzante finale, dove, al posto di una fine per quanto orribile e ignominiosa, non rimane altro che una desolazione vuotata di tutto.
Credo non ci si renda conto fino in fondo di quanto sia dolorosamente infame il mondo ricostruito da Orwell finché non lo mettiamo a confronto con gli altri contesti letterari a cui siamo abituati.
Inoltre, da presunta scrittrice (diciamo che ci ho provato e nulla di più), so quanto sia impossibile resistere alla tentazione di lasciare sempre quella famigerata porta aperta ai propri protagonisti e posso solo lontanamente immaginare lo sforzo di dare vita a dei personaggi destinati all'annichilimento e all'umiliazione più profonda.
Quando un autore arriva a sacrificare la propria creatura (cosa che, come King ci insegna in "On writing", è decisamente la più difficile per uno scrittore) per raggiungere uno scopo che sia ben oltre la mera narrazione, allora quell'obiettivo ha ricevuto tutta l'attenzione e il tributo che merita.
Inutile aggiungere considerazioni sull'analisi estremamente acuta e spiazzante dell'influenza che una lingua può avere sulla società o sulle motivazioni puramente economiche alla base di molte delle guerre moderne. Sono sicura che su tali argomenti il web pulluli di discussioni ben più accurate della mia.
Di certo, se il contesto volutamente portato agli estremi può rassicurare in qualche modo il lettore, che si illuderà (e ringrazierà) a ogni pagina di non vivere in una siffatta società, ci sono frasi, apparentemente innocue, che spazzeranno via qualunque senso di sicurezza.
Un piccolo esempio?
Il lavoro pesante, la cura della casa e dei bambini, le futili beghe coi vicini, il cinema, il calcio, la birra e soprattutto le scommesse, limitavano il loro orizzonte. Tenerli sotto controllo non era difficile.
[...] un po' di patriottismo primitivo al quale poter fare appello tutte le volte in cui era necessario fargli accettare un prolungamento dell'orario di lavoro o diminuire le razioni di qualcosa.
 Ricorda qualcosa? Triste ma vero, come cantavano i Metallica.

mercoledì 25 agosto 2010

Neil Gaiman - Il cimitero senza lapidi e altre storie nere

Qualche piccolo brivido, una manciata di risate e tante evocazioni di immagini lontane ma radicate nell'inconscio nutrito da favole e leggende.
Ecco in breve che cosa aspettarsi da questa piccola antologia. Alcuni racconti passano quasi incolori e inconsistenti, ma altri racchiudono delle vere e proprie perle di divertimento e fantasia.
Commenterò in breve ciascuno di essi.

Il cimitero senza lapidi. Un racconto che solo racconto non è. Ricco di spunti, lascia presagire sottotrame interessanti che qui non vengono sviluppate. Una favola col lieto fine solo a metà, che lascia il prurito sulle dita per la curiosità di leggere ancora.

Il ponte del troll. Una buona idea, dal sapore nostalgico di fiaba adulta, ma sviluppata mediocremente. Gaiman sa scrivere molto meglio di così.

Non chiedetelo a Jack. E' uno di quei racconti che chiamo "un quadro in lettere", di quelli che nascono da un'ispirazione, un'immagine, una sensazione, senza la pretesa di una trama che porti da qualche parte. A volte si ha solo voglia di scrivere ciò che si percepisce dando voce alla propria ispirazione. Inquietante al punto giusto.

Come vendere il Ponte di Ponti. Brillante e geniale. Chi può resistere in fondo al fascino di una truffa in grande stile?

Ottobre sulla sedia. Sempre carina l'immagine dei mesi personificati radunati in una locanda o attorno al fuoco, divertente l'idea di questi dodici individui raccolti a raccontarsi storie spaventose come a un campo scout. La storiella di per sé non è male, ma non mi è rimasta particolarmente impressa (ho dovuto riaprire il libro per rinfrescarmi la memoria).

Cavalleria. Una versione decisamente curiosa e innovativa della ricerca del Graal. Plauso per la fantasia di Gaiman!

Il prezzo. Una storia tenera con una buona dose (credo) di autobiografia, forse la più inquietante di tutte, proprio per il suo contesto reale.

Come parlare con le ragazze alle feste. Qui si sfocia nella fantascienza vera e propria. Il brano di suo non racconta quasi nulla, ma proprio l'ingenuità del protagonista, che fatica a cogliere il senso dei dialoghi allucinati che lo coinvolgono, lascia intravedere una realtà aliena discreta, che osserva il mondo con gli occhi del turista. Non mi ha entusiasmata, ma è un'altra prova discreta di originalità, che non guasta mai.

Avis Soleus. Divertente, scanzonato, assurdo. Forse il migliore della raccolta per quanto riguarda lo stile. Scorre veloce e quasi non ci si rende conto di stare leggendo una storia strampalata, che sembra senza capo né coda. Il bello è invece che un capo e una coda ce l'ha e Gaiman non ha avuto certo bisogno dei soliti manuali di istruzioni appioppati al lettore o finali farciti di spiegazioni esasperanti per dare un senso al suo racconto.

Il caso dei ventiquattro merli. Da uno spunto fantastico (il personaggio di Humpty Dumpty di "Alice nel paese delle meraviglie") un giallo coi fiocchi, in un'atmosfera surreale, da favola appunto. La narrazione in prima persona è semplicemente perfetta.

Istruzioni. Affascinante, ma non amo particolarmente questi esercizi di stile, se non all'interno di un contesto che vi dia un senso.

giovedì 29 luglio 2010

Luca Tiraboschi - Faccia di cuore

Avrei voluto recensire questo libro appena letto, ma gli ultimi esami e la tesi mi hanno tenuta occupata la mente in modo incessante, mentre volevo sedermi tranquilla al pc e scrivere con calma. Alla fine il tempo trascorso mi ha permesso di riflettere sull'interpretazione immediatamente successiva alla lettura e sono contenta di poter mettere sul piatto un po' di riflessioni aggiuntive.
Intanto la classificazione canonica mi impone di inserirlo nella categoria "horror", ma di fatto è una storia d'amore.
Soltanto leggendo il romanzo si percepisce come l'orrore sia su un livello del tutto differente da quello che ci si aspetterebbe da una prima presentazione del libro.
L'orrore fisico è sì presente, ma talmente irreale da risultare grottesco e poco tangibile. E' invece l'orrore del contesto a creare un disagio profondo nel lettore, quella sensazione di "tutto sbagliato" a cui si vorrebbe porre rimedio prima che sia troppo tardi. Si avverte la necessità di voler rimettere tutto a posto, un senso di urgenza verso una situazione che prima o poi dovrà precipitare per forza nel caos. E' l'impotenza di fronte a una storia che si svolge davanti ai nostri occhi in una direzione che odora sempre più di disastro.
E il finale non ha nulla di liberatorio. Rimane l'amaro in bocca, la tristezza per qualcosa che non è andato per il verso giusto fin dall'inizio e che non ha avuto vere occasioni di cambiare il suo corso.
Rimangono solo le riflessioni, tante e contrastanti.
Ci sono due genitori e un figlio. Il motore di tutto è, nonostante gli evidenti abomini emotivi, l'amore. Chissà quante volte abbiamo avuto davanti agli occhi esempi di genitori che in nome dell'amore per i propri figli hanno agito in assoluta controtendenza a qualunque logica e a qualunque regola del buon senso. Chissà quante volte ci siamo trovati a deplorarli, a pensare a quelle povere creature destinate a scontrarsi con la dura realtà una volta che l'ala protettiva dei loro guardiani verrà, per forza di cose, a mancare.
Inevitabilmente ci si guarda allo specchio e ci si fa un esame di coscienza. Quanto è giusto fregarsene delle convenzioni per seguire le proprie idee e la propria morale? Quanto stiamo danneggiando i nostri figli costringendoli a uno stile di vita per noi giusto ma lontano da quello "normale"?
Ma soprattutto, se un bambino è felice, non potremmo osservarlo con occhio scevro da ogni stereotipo? Non potremmo godere del suo sorriso senza scandalizzarci di come questo obiettivo sia stato raggiunto?
Io una risposta non l'ho ancora trovata. E già solo per questo ritengo che "Faccia di cuore" meriti molto di più di un'etichetta di "romanzo horror".
Concludo con un commento sullo stile. L'autore tende a ribadire concetti espressi più volte lungo la narrazione, a volte con ripetizioni talmente evidenti e frasi così banali da risultare fastidioso. Da profana, posso immaginare si tratti di una scelta intenzionale, dando al romanzo quell'atmosfera da fiaba che rafforza ancor di più quel senso naturale di distacco che un adulto ha di fronte a una situazione del tutto surreale, ma dall'altro accentua il disagio di trovarsi di fronte a una delle tante fiabe moderne a cui la cronaca ci ha, purtroppo, abituati.