giovedì 20 novembre 2008

Paulo Coelho - Manuale del guerriero della luce


Ecco un altro libro che ha richiesto mesi di brevi letture e lunghe riflessioni per essere digerito.
Ho cominciato a leggerlo durante le vacanze estive e l'ho terminato ieri sera, a volte andando indietro a rileggere alcune pagine.
Devo dire che non ho una smisurata simpatia per Coelho, nonostante a suo tempo mi piacque tantissimo "L'Alchimista", perché trovo che il suo modo di scrivere sia finalizzato a complicare i concetti più semplici, portando il lettore in una condizione di inferiorità, facendolo quasi sentire stupido di fronte a rivelazioni tanto importanti ma altrettanto incomprensibili. Ma suppongo che il suo successo sia stato determinato anche da questo, senza nulla togliere al suo stile e alla sua bravura, che comunque non metto assolutamente in discussione.

Ma di cosa parla in sostanza questo libretto di 150 pagine?
E' una raccolta di cosiddette perle di saggezza, in cui l'autore definisce, tramite immagini più o meno evocative, che cos'è un guerriero della luce, ovvero un individuo come tanti, come tutti in fondo, che porta avanti il suo cammino di scoperta personale con costanza e fiducia.
La soggettività con cui ciascuno di noi può recepire i messaggi riportati in questo libro porta crea uno stato emotivo particolare, perché si ha veramente l'impressione che quelle parole siano state scritte per noi.
Credo sia un po' come gli oroscopi, dove ognuno rivede qualcosa di sé e della propria vita, rielaborando i dettagli sulle proprie esperienze e aspettative.
Pagina dopo pagina, si vanno a percuotere le corde personali del lettore tramite l'utilizzo di immagini appositamente specifiche ma lasciate indefinite nei particolari, permettendo un'immedesimazione quasi totale.

Devo dire che mi piacerebbe avere dei feed-back a riguardo, se altri si sono riconosciuti appieno nel libro (confermando la mia ipotesi) oppure se è stata una pura casualità.
Attendo commenti.

mercoledì 10 settembre 2008

Mikael Niemi - Musica rock da Vittula


Ecco uno di quei libri che ti consigliano caldamente e che non hai mai sentito nominare (e che forse proprio per questo pensi che possa valerne la pena, visto che non è il classico "l'han letto tutti quindi è bellissimo").
Il romanzo si apre con una scena d'alta montagna, la scalata di una cima nepalese, tra freddo e ghiaccio e già la mia mente cade in fibrillazione: montagna e musica nello stesso libro, non posso che andare avanti fiondata nella lettura!
Ed ecco dipanarsi una storia dove, quasi inutile dirlo, la maggior parte di noi riesce a identificarsi: le scoperte che portano dall'infanzia all'adolescenza, i dubbi e i colpi di testa, ma soprattutto... la musica!
Non poteva arrivare un pungolo più pressante, in un momento di bilancio e di voglia di fare come questo, per tornare a pensare seriamente alla musica.
E se un libro è in grado di raschiare l'animo riacutizzando desideri e passioni, non può altro che essere un libro bello, semplicemente bello.
Se poi è anche scritto magistralmente, con alcune metafore che lasciano veramente a bocca aperta, vale sul serio la pena di leggerlo. E di ascoltarlo.

martedì 2 settembre 2008

Alessandro Baricco - Novecento. Un monologo


Ho letto il libro in una mattinata di mare, dopo aver visto un paio di volte La leggenda del pianista sull'oceano, uno di quei film che capita di guardare per caso per poi innamorarsene perdutamente.
Per quanto mi avessero già detto che il libro altro non è che il monologo che si snocciola lungo il film, è stato comunque sorprendente rivivere l'atmosfera, i suoni e le sensazioni attraverso le frasi brevi ed efficaci di Baricco. Il testo contiene il ritmo stesso della musica che riempie il film, tanto da dare l'impressione che gli spartiti siano nati come conseguenza diretta del ritmo narrativo.
Non mi rimane che riguardare il film, per farmi trasportare un'altra volta dalle note convulse e commoventi del jazz.

lunedì 21 luglio 2008

Snorri Sturluson - Edda


Ho approcciato questo testo di mitologia nordica dopo una rapida lettura di un volumetto della collana Atlanti di Mitologia riguardante appunto i "Miti del Nord".
L'interesse motore di queste letture si snoda su vari piani, il primo fra tutti quello di ricerca letteraria, ma anche quello della necessità di un'ispirazione mirata e, non ultimo, di curiosità personale.

Ciò che mi sono trovata di fronte non corrispondeva assolutamente alle aspettative. Siamo abituati a immagini epiche e grandiose quando si fa riferimento alla mitologia scandinava, forse condizionati dal modo di vedere altri miti, come quelli greci, dove le divinità, seppur coi loro difetti, sono indubbiamente eleganti e trasudanti fascino.
Le divinità nordiche sono tutt'altro che permeate da un alone di bellezza divina, tanto da risultare, in più di un'occasione, alquanto ridicole.
Gesta epiche sono narrate con una semplicità disarmante, arricchite di particolari a volte insignificanti, altre volte addirittura contrastanti con il contesto in cui si trovano.
Non posso nascondere una certa delusione durante l'approccio iniziale, delusione che però ha lasciato il posto a una curiosità sempre maggiore.
Ho sentito difatti questo mondo molto distante, molto diverso dal mio modo di vivere la mitologia, e per questo ritengo possa nascondere un fascino che non mi si è ancora palesato, ma che non escludo possa risultare fonte di stupore e di una conoscenza con cui finora non sono entrata in contatto.

Un aspetto di cui invece ero già a conoscenza è il concetto di destino, di predestinazione. E' sconcertante, per una cultura abituata alla concezione di un destino costruito giorno per giorno, in dipendenza esclusiva della propria volontà, trovarsi di fronte a un tale fatalismo, a una rassegnazione da cui neanche gli dei possono sottrarsi.
Ma è una rassegnazione che non comporta prostrazione, perché ogni cosa è vissuta in un ciclo senza fine, dove ciò che muore rinasce. Anzi, vita e morte sono condizioni contemporanee, perché ciò che rinascerà è come se fosse già vivo, e ciò che morirà può essere considerato già morto.

L'assenza di una precisa linea cronologica è un altro aspetto che mi ha spiazzata e incuriosita. Alcuni avvenimenti narrati in successione sembrano non possedere una precisa collocazione temporale all'interno dei miti, come se tutto accadesse in una realtà senza tempo, senza un prima e un dopo, come se l'unico elemento importante fosse la sua realizzazione.

Affrontare una mitologia siffatta mi sta costringendo a demolire luoghi comuni e aspettative letterarie, ovvero gli stessi vincoli che importo anche in ciò che scrivo. Se durante questa ricerca mi renderò conto di aver imboccato la strada sbagliata per quanto concerne il materiale da cui volevo attingere, potrò comunque ricevere il beneficio di saper affrontare gli argomenti con meno schemi mentali e forse la capacità di interpretare visioni della realtà diverse dalla mia.

lunedì 14 luglio 2008

Henri Brunel - Il metodo del gatto


Sei mesi per terminare un libretto di neanche 150 pagine possono sembrare un'infinità, ma ci sono libri, apparentemente leggeri e disinvolti, che richiedono di essere affrontati a piccoli passi, assaporandoli lentamente per poter assimilare al meglio il loro contenuto.
L'autore di questo volumetto è un insegnante di yoga amante dei gatti, che ha saputo trovare la via di spiegare il rilassamento attraverso l'osservazione attenta e ammirata di queste creature.
Non si tratta di un libro sui gatti, ma di un libro che fa del gatto un termine di misura e di confronto, uno specchio in cui rifletterci e riflettere su noi stessi.
E' incredibile come tante volte ci ritroviamo a constatare di come le affermazioni più banali possano comunque presentarsi come delle rivelazioni. Ma proprio la semplicità di talune esternazioni ci lascia disarmati nel momento in cui comprendiamo come tali verità siano sempre esistite dentro di noi, ma non siamo mai stati in grado di focalizzarle.
E come se vi fosse una sorta di ritmo morbido e naturale nell'irregolarità con cui ho aperto e sfogliato questo libro, è stato ancora più stupefacente constatare di volta in volta alle risposte di cui necessitavo. Ma ancor di più, lo straordinario parallelismo con ciò che stavo vivendo.
La prima parte "A tu per tu con il quotidiano" mi ha accompagnata mentre mi trovavo ad affrontare le piccole grandi difficoltà di ogni giorno, dall'esame universitario alla telefonata irritante.
Ma ecco, quando le necessità del mio io sono mutato, quando le domande sono traslate su un piano differente, la seconda parte, "Il viaggio interiore", che ha posto gli accenti sugli ultimi strascichi di un percorso difficile ma estremamente gratificante.
E' indubbio come riflettiamo le nostre esperienze e il nostro sentire in ogni cosa che viviamo, ma suppongo sia un pregio di ciò che ci viene offerto l'avere la capacità di fungere da specchio per noi stessi.
Un libro che ci permette di focalizzare meglio ciò che sentiamo è comunque un buon libro, indipendentemente dall'utilità pratica del suo contenuto.
Se poi siete degli amanti dello yoga e degli esercizi di rilassamento, troverete sicuramente degli ottimo spunti.
Io ne ho tratto l'ispirazione per scrivere, seppur poche pagine, nate però con spontaneità e desiderio di comunicare le mie emozioni. La serenità e l'ironia con cui Brunel ha voluto comunicare le proprie mi ha permesso di sorridere delle mie paranoie e delle mie paure.
Forse, fra i tanti tipi di rilassamento, quello della scrittura è il più sottinteso ma allo stesso tempo più esplicito fra quelli indicati dall'autore.

venerdì 13 giugno 2008

Estinzione


Killon arrancava nei cunicoli in preda a uno stato di eccitazione e paura. I suoni della battaglia gli giungevano vivi e ben distinti, per quanto fosse certo di essersi allontanato a sufficienza. L'agitazione lo faceva cadere ogni pochi metri, ma si sforzò di proseguire. Doveva uscire a tutti i costi dalle caverne del clan o sarebbe stata la fine.

Quando l'armata degli orchi aveva superato l'ingresso alle caverne, si era scatenato il caos tra i nani e ognuno era corso a prepararsi come meglio poteva alla battaglia. Il clangore del metallo e le voci allarmate avevano riempito il complesso di caverne, mescolandosi alle grida degli invasori. La sorpresa di quell'attacco notturno era stata però presto dimenticata per lasciare posto alla violenza dello scontro, al boato del ferro portatore di morte. Gli orchi lanciavano grida selvagge, che riempivano l'animo di orrore, mentre le loro lame fendevano e straziavano con instancabile brutalità.

Killon cadde ancora una volta, graffiandosi le mani nel tentativo di appoggiarsi alla parete del cunicolo. Il sudore aveva impregnato ogni centimetro della sua pelle e ogni appiglio pareva sfuggirgli come se lo respingesse. Le gambe stanche e doloranti, più per la tensione che per la fatica, continuavano a farlo avanzare, un metro dopo l'altro finché i rumori del combattimento rimasero coperti dal suo ansimare e dal battito del suo cuore.

Finalmente era riuscito a lasciarsi veramente alle spalle lo scontro o forse semplicemente la battaglia stava volgendo al termine. Era quasi sicuro dell'esito, ma non così tanto da fidarsi a tornare indietro. Sarebbe stato sufficiente che soltanto uno fosse rimasto vivo, che per lui sarebbe stata la fine. Si sentiva un codardo, ma non se ne vergognava. L'aveva fatto per la straziante richiesta d'aiuto del suo istinto di sopravvivenza che, a suo parere, giustificava ogni cosa, anche l'aver abbandonato i propri compagni al loro destino.

Un refolo d'aria fresca lo spinse ad accelerare il passo e a proseguire verso l'uscita ormai vicinissima. Il vento notturno gli sferzò il viso come uno schiaffo quando si affacciò sul costone roccioso che scendeva verso la valle sottostante. Camminò in fretta, nonostante la stanchezza, e quasi corse quando giunse ai piedi della montagna. Il silenzio fu una consolazione di ben poca durata, spezzato dal rumore di zoccoli in avvicinamento. Individuò alcune rocce ammassate di fianco a una vecchia quercia e corse a rifugiarsi dietro quel riparo improvvisato. Il trotto divenne passo e infine i cavalli si fermarono sbruffando.

Il nuovo silenzio, molto meno rassicurante del precedente, lo angosciava. Imprecò mentalmente contro il suo cuore, che sembrava fare un rumore eccessivo, ma infine ogni illusione di passare inosservato venne meno e uno degli uomini appena giunti lo adocchiò da sopra le rocce.

- Vieni fuori di lì, idiota.

- Io... io...

Killon sgusciò dal suo nascondiglio come una lepre che sonda apprensiva il terreno circostante.

L'ufficiale lo squadrava dall'alto al basso, con una vena di disprezzo per quell'essere che aveva tradito il suo popolo. Killon, dal canto suo, continuava a giustificarsi, ripetendo nella mente le parole che l'uomo gli aveva detto: “Prima o poi conquisteremo la fortezza, è solo una questione di tempo. Sta a te decidere se morire nell'inutile e lungo assedio, o se aprire le porte e salvarti.”

- Hai fatto un ottimo lavoro nano.

- Vi... vi ringrazio - riuscì a malapena a balbettare, avvertendo uno strozzamento in gola quando una figura ammantata di nero avvicinò il suo cavallo per scrutarlo meglio.

Il mantello riportava piccole rune argentee lungo il bordo e sull'estremità anteriore del cappuccio si stagliava, bianco, il simbolo dell'oscuro Izrador, ormai tristemente conosciuto da ogni gente di Eredane.

Il legato scese da cavallo con movimenti lenti e controllati, mentre il suo sguardo, adombrato dal cappuccio, rimaneva fisso sul nano tremante.

Un'ombra si mosse alle sue spalle e una belva dal pelo fulvo apparve al suo fianco. Il legato accarezzò il pelo dell'animale, che lo guardò intensamente per poi posare a sua volta gli occhi scintillanti su Killon.

- Non saremmo mai riusciti a entrare senza il tuo aiuto - disse il legato con voce afona, quasi roca.

- Come?

Lo stupore che si dipinse sul volto del nano fece sorridere il legato.

- E dire che parlano dei nani come di una razza abile e sveglia.

Killon si sentiva troppo stupido per potersi in qualche modo offendere e il rossore che sentì sul viso non fece che aumentare la sua frustrazione. Fece di nuovo appello al suo spirito di sopravvivenza per mettere da parte l'imbarazzo:

- Il nostro patto può quindi considerarsi concluso?

- Non ancora. Gli accordi erano la completa estinzione del clan Anbek.

- Ma non è rimasto più nessuno...

Le parole gli morirono in gola, mentre a un gesto della mano dell'inquisitore uno dei soldati scattò verso di lui.



“Estinzione” - 22 marzo 2008



Partecipante al concorso Miglior racconto breve per 'Midnight' indetto da Il 5° Clone.


lunedì 14 aprile 2008

L'uomo della nebbia

I bambini di Sheldomville, come ogni sera, si infilarono sotto le coperte timorosi del buio, perché nelle ombre si nascondeva il temuto uomo della nebbia.

Ogni genitore ricorreva alla terribile minaccia dell'uomo della nebbia per convincere il proprio bambino ad andare a letto senza fare capricci, facendo leva sulla suggestione che la bruma serale provocava nelle giovani menti.

In effetti Sheldomville veniva avvolta da un morbido abbraccio vaporoso al calar del sole, per poi liberarsene solo dopo l'alba, e la nebbia sembrava custodire i sonni dei popolani della valle di Arten come una coperta premurosa. Se gli adulti riuscivano a godersi il lato romantico di una tale atmosfera raccolti nelle proprie case per la cena, i bambini si affacciavano con gli occhi spalancati alle piccole finestre delle casupole, guardando l'intreccio dei fili argentei che, piano piano, si fondeva a creare un manto compatto e impenetrabile allo sguardo. Era fin troppo facile per loro riuscire a immaginare un evanescente omino senza volto che si aggirava nella coltre grigia e misteriosa, per poi insinuarsi attraverso le assi di legno e giungere fino al letto del dormiente, per dischiudere ai suoi occhi mondi terrificanti e traboccante di orrori innominabili.

Ma Jordy non aveva paura dell'uomo della nebbia e dei luoghi misteriosi di cui era messaggero. Fremeva di curiosità per quei mondi leggendari, in cui si muovevano mostri e razze da incubo. Ogni sera sperava di intravedere una piccola voluta di nebbia infilarsi nello spiraglio che si apriva nell'infisso della finestra, ma si era sempre risvegliato al mattino deluso e impaziente di veder calare di nuovo la notte. La sua fiducia era però incrollabile, perché lui aveva la prova dell'esistenza dell'uomo della nebbia e della magia di cui era portatore.

Difatti custodiva gelosamente da settimane una sfera di vetro, che aveva trovato una mattina in mezzo ai suoi giocattoli. Non aveva mai chiesto agli altri bambini di chi fosse, l'aveva semplicemente fatta sua. Aveva chiamato lo strano oggetto “palla magica” e il nome era decisamente appropriato. La sfera infatti era costituita da un rivestimento di vetro talmente sottile da sembrare quasi inesistente, mentre all'interno non si vedeva altro che un ammasso di nebbia grigia, che a volte sembrava vibrare di vita propria, lasciando intravedere il movimento di alcune volute che andavano a fondersi e morire nella massa circostante. Jordy si convinse subito che quell'oggetto meraviglioso doveva appartenere all'uomo della nebbia, un essere che viveva in mondi ammantati di magia. Non capiva la paura degli altri bambini e pensava che fossero semplicemente troppo codardi per esplorare quegli universi sconosciuti.

Quella sera si infilò nel letto con la stessa speranza di poter dare una sbirciata ai mondi fantastici di cui ormai riusciva a immaginare ogni elemento e dettaglio, ogni creatura e sfumatura di colore. Quando fu sotto le coperte, si accorse che la finestra era rimasta socchiusa ma sentiva troppo freddo per alzarsi e chiuderla. Stava per chiudere gli occhi vinto dalla stanchezza, quando un fruscio attirò la sua attenzione e vide la luce lunare filtrare dalla fessura rimasta aperta e riflettersi su una voluta di fumo argenteo.

Jordy trattenne il fiato e il cuore si mise a galoppargli nel petto, spinto dall'emozione improvvisa e inattesa. Il sottile filo nebuloso si ripiegò in forme sinuose e si espanse nella stanza, continuando ad assorbire il bagliore lunare come se la luce stessa desse forma e consistenza a quella sostanza impalpabile.

Infine, davanti agli occhi di Jordy si delineò la figura magra, quasi scheletrica, di un uomo dai tratti indefiniti. Sembrava indossare una sorta di tunica il cui orlo ondeggiava inquieto appena al di sopra del dorso dei piedi.

Jordy scattò a sedere sul letto, la bocca spalancata in un moto di stupore e meraviglia.

- Sapevo che saresti venuto da me!

L'uomo sorrise, silenzioso, e si avvicinò a Jordy.

- Mi porterai nel tuo mondo?

Lui annuì e il suo sorriso si allargò. Poi allungò una mano verso la sfera che Jordy custodiva sotto al cuscino e la accarezzò con tenerezza, come una madre amorevole farebbe col proprio bambino.

Invitò Jordy a guardare con un gesto della mano, mentre dentro la sfera si agitava qualcosa. Il piccolo rimase stupefatto, perché il movimento della materia evanescente che già aveva visto in altre occasioni era accompagnato da riflessi luminosi che si alternavano a ombre sinuose.

L'uomo avvicinò ancora di più la sfera verso il viso di Jordy e il bambino ne rimase come ipnotizzato. Il gioco di luci e ombre sembrava una danza esotica carica di promesse di meraviglie e per Jordy era come l'avverarsi di un sogno. Il desiderio divenne incontrastabile e Jordy allungò di scatto una mano per afferrare la sfera. Appena toccò la superficie, non avvertì il freddo contatto col vetro, ma le sue dita affondarono nella massa turbinante che ora aveva i riflessi dell'argento e dell'oro. Si lasciò attrarre e plasmare, mentre il suo corpo cominciava a farsi evanescente.

La sensazione fu esaltante e terrificante insieme. La massa nebbiosa avvolse Jordy fino a fondersi col suo corpo, accarezzandolo come una coperta ma allo stesso tempo penetrandolo come migliaia di aghi sottili. Jordy si ritrovò in un mondo senza linee e senza punti di riferimento. Era circondato da un nulla colmato soltato dalla nube argentea che gli volteggiava attorno, in un moto sempre più lento. Infine il turbinio si placò, lasciandolo nel silenzio e nell'immobilità. Provò a chiamare, ma nessun suono uscì dalla sua gola. Si mosse e avvertì semplicemente il suo corpo fluire nella materia fumosa, come una delle tante piccole volute che vi si agitano dentro. Il tempo perse ogni parvenza di regolarità e i secondi divennero anni e le ore semplici istanti tutti uguali.

L'uomo della nebbia accarezzò con amore la sua sfera e la ripose in una tasca nascosta della sua veste. Uscì dalla finestra, confondendosi con la bruma che circondava il piccolo paese. Si avvicinò alla casa dei Mothler e notò alcuni giocattoli abbandonati nel porticato antistante il piccolo edificio. Abbandonò la sfera tra una trottola e alcune corde colorate, poi sorrise e si allontanò leggero, come se non toccasse il terreno.

Ora doveva solo attendere un nuovo invito.



“L'uomo della nebbia” - 7-8 marzo 2008



Racconto partecipante alla prima fase della V edizione del concorso "La fossa" indetto sul forum di Scheletri.com; classificatosi per la seconda fase (ancora in corso).


Pubblicato anche su http://lnx.dittaferrara.it/epress


mercoledì 9 aprile 2008

La verità del silenzio

Reldan, l'uomo che si è occupato di me sin dall'infanzia, sta morendo in un letto davanti ai miei occhi. Il petto vecchio e stanco si solleva a fatica e gli occhi si aprono sempre più raramente. Ascolto i suoi rantoli agonici con tristezza e curiosità al tempo stesso, perché sono i primi e gli ultimi suoni che sento emettere da quest'uomo, che per tutta la sua vita non ha mai parlato. Mentre gli tengo la mano, prego perché il trapasso sia per lui il più possibile indolore, ma sento che il suo respiro affannato gli provoca una sofferenza che non potrà mai descrivere.

- La... la strada...

Sussulto, mentre il cuore sembra paralizzarsi. Reldan ha parlato veramente o è stata la mia immaginazione?

- La strada è ancora aperta...

Il tempo sembra cristallizzarsi attorno a me, mentre ascolto le parole che mai sarebbero dovute uscire da quella gola offesa. Ora sembro io il muto, mentre le labbra di Reldan si muovono tremanti, cercando di comporre suoni comprensibili. Lo guardo e riesco solo a pensare che non può essere vero, che forse mi sono appisolato al capezzale di colui che è stato come un padre silenzioso per tutti questi anni e che sto sognando ciò che ho desiderato per tutta la vita. Ma la bocca del vecchio si apre ancora una volta, sussurrando:

- La porta, la strada... puoi tornare a casa...

Inebetito dalle sue parole, mi rendo conto soltanto ora che sta parlando con me e di qualcosa di cui avevo smesso di pormi domande tanto tempo fa. Quante volte gli avevo chiesto da dove venissi, chi fossero i miei veri genitori o anche solo dove mi avesse trovato. Mi guardavo allo specchio, osservando i miei capelli neri e gli occhi grigi, così diverso nella fisionomia dalle persone che conoscevo, e desideravo sapere qualcosa, un qualunque dettaglio, sulle mie origini, ma lui non aveva mai potuto rispondere alle mie domande. Si limitava a sorridermi e a indicarmi i libri della grande biblioteca impolverata, come a dire che soltanto lì avrei trovato le mie risposte.

Ma fra i tanti tomi, alcuni talmente antichi da pensare che fossero stati creati col mondo stesso, non avevo trovato nulla che potesse indicarmi la mia origine. Se solo Reldan avesse saputo scrivere, forse avrebbe potuto dirmi di più. Invece non poté mai neanche scarabocchiare su un pezzo di carta qualcosa che potesse dirmi del mio passato e della mia origine. E né i servitori che mi sono stati sempre accanto, né il tutore che mi diede un'istruzione erano a conoscenza del mio passato o del luogo in cui Reldan mi aveva trovato. Sembrava che soltanto lui avesse le risposte e, per una beffa del destino, non poteva comunicarmele. E per questo, un giorno, smisi di porre domande.

Ora però quest'uomo che credevo muto sta parlando. E se fosse sempre stato in grado anche di leggere e scrivere? Come ha potuto ingannarmi per tutti questi anni? Nella mente si accavallano così tante domande che l'unica cosa di cui sono certo è il dubbio.

Reldan spalanca gli occhi e gira la testa di scatto verso di me. Il movimento è talmente repentino che salto sulla sedia spaventato, come se vedessi un fantasma. O meglio, è come se vedessi uno sconosciuto, una persona di cui credevo sapere tutto e che invece si presenta a me in una veste completamente nuova proprio ora che sta esalando il suo ultimo respiro.

- Credo di doverti chiedere scusa, ragazzo mio, per gli anni di silenzio a cui ti ho condannato. Ma soprattuto per non aver mai dato soddisfazione alle tue domande. Quanto vuoto devi sentire dentro per ciò che eri e non conosci.

Provo a parlare ma la lingua sembra paralizzata. I ruoli sembrano essersi invertiti e lo lascio continuare. Ora prego perché il suo trapasso sia il più lontano possibile, che il tempo fermi per qualche istante la sua corsa.

- Forse sarei dovuto arrivare alla tomba silenzioso così come mi hai sempre conosciuto, ma che gli Inferi mi accolgano se ti lascio in questo mondo senza dirti che hai una casa e che esiste ancora la strada per tornarci.

Prende un ampio respiro e l'aria sembra non voler uscire dai polmoni. Diventa cianotico in volto e temo che mi abbandoni proprio ora. Invaso da un senso di rabbia che non credevo potesse esistere nel mio animo, la voce mi esplode in gola:

- No! Non puoi morire ora! Devi parlare!

Reldan riprende a respirare, sempre più faticosamente.

- Capisco il tuo rancore, ma credimi se ti dico che l'ho fatto per proteggerti.

Il mio sguardo si sta infiammando, non so se per il furore o per le lacrime. Continuo a chiedermi come l'uomo che tanto mi ha amato sia stato anche in grado di farmi crescere in un'eterna menzogna.

- E se non ti ho mai rivolto la parola, è stato per non mentirti.

La sua affermazione mi fulmina. E' vero, non ha mai proferito falsità. Ma il silenzio non è stato ugualmente una bugia perpetrata negli anni, più insidiosa di qualunque parola potesse mai dirmi?

Cerco di mantenere la calma, agognando infine la verità. So che non può mentire ancora.

- C'è però una cosa su cui non ti ho mai ingannato: i libri. In essi sono custodite le tracce che ti riporteranno a casa.

La mia voce esce roca, come se le mie corde vocali lottassero contro il groppo che mi ha annodato la gola:

- Non ho mai trovato nulla in quei libri. Sono solo trattati di storia e raccolte di novelle.

- E che altro sarebbe la storia se non il nostro passato e le novelle ciò che viene rivelato sulle nostre vite?

Ora penso che sia pazzo. Forse l'agonia lo sta facendo sragionare. Ma voglio lasciarlo parlare, voglio ascoltare la sua voce infame fino alla fine.

- Se ben ricordi, c'è stato un libro che hai amato sin da quando il signor Gorian ti ha insegnato a leggere. Lo portavi sempre con te e non ti stancavi mai di leggere le storie di fate e folletti.

- Erano solo favole.

- La tua vita è una favola. Il mondo da cui provieni è per i più soltanto un luogo esiliato nelle fantasie dei bambini. Ma a volte si aprono porte che portano in questa realtà cose che gli uomini non vogliono vedere e accettare. Quando richiusero il varco, cancellarono ogni segno potesse ricordare loro che esistevano altre realtà, fantastiche e spaventose allo stesso tempo. Ma non riuscirono a eliminare anche te. Lottai per portarti via dalle loro mani assassine e ti tenni con me, avvolgendo me stesso nel silenzio per non doverti mentire, consapevole che la verità avrebbe portato a conseguenze disastrose. Sapevo che se ti avessi detto tutto al momento sbagliato, quando era ancora troppo presto perché tu comprendessi, sarebbe stata la rovina. La tua è una razza romantica e sognatrice, ma anche capace di vendette violente e di gesti inconsulti. Ma ora sei grande, ragazzo mio, e puoi affrontare la conoscenza senza lasciartene possedere. So che sceglierai con giudizio, sia che tu decida di rimanere in questo esilio o di cercare la strada per tornare a casa.

Gli occhi di Reldan si richiudono lentamente, un rantolo è l'ultimo suono che sento, prima che il silenzio ricada tra noi, così com'era sempre stato. Il volto di Reldan diviene sfumato mentre le lacrime di rabbia e tristezza mi riempiono gli occhi. Come un automa mi alzo, gli accarezzo il volto e vado in cerca del libro.

Lo trovo in uno scaffale basso della biblioteca, con un angolo preso in prestito da un ragno per la sua casa. Sfratto l'inquilino e lo prendo con delicatezza, come se fosse un'antica reliquia. Avevo dimenticato il disegno del portale fiorito sulla copertina, che mi aveva affascinato per la sua somiglianza col portone del roseto, quello che dava sulla brughiera e che non veniva ormai utilizzato da nessuno. Non avevo mai attraversato quel portone, non più accessibile da anni a causa dei rovi che vi erano cresciuti attorno.

Mi ritrovai a ridere come uno sciocco, pervaso da una sensazione insieme di felicità e di smarrimento. Tornai al capezzale di Reldan e salutai un'ultima volta l'uomo che, nella sua prigione di silenzio, aveva sempre evitato di mentirmi, permettendomi ora di credere alle sue uniche parole, le sole mai pronunciate al mio cospetto.



“La verità del silenzio” - 21 gennaio 2008



Racconto partecipante al 10° Concorso di Narrativa e Poesia indetto dal Comune di Lagosanto (FE).


giovedì 3 aprile 2008

Il decimo cerchio

Elia era un demone. Di questo era certo.

La prima volta che aveva incontrato le ombre aveva pensato che sarebbe morto, col cuore imbizzarrito e i polmoni che sembravano lottare contro un peso invisibile che voleva schiacciarli. Invece non solo era sopravvissuto, ma aveva compreso che esse non avevano intenzione di ucciderlo, bensì di aprirgli una porta. Aveva sbirciato appena oltre la soglia dell'Abisso ed era rimasto terrorizzato da quell'oscurità densa come l'inchiostro.

Le notti seguenti aveva cercato il conforto di una piccola luce da camera per tenere lontane le ombre, ma le percepiva comunque attorno a sé e sapeva che, non appena avesse abbassato la guardia, gli sarebbero state di nuovo addosso, ghermendo il suo collo con dita sottili e implacabili.

Ogni volta, quando sentiva che la vita stava per abbandonare il suo corpo, Elia affondava il viso nella massa oscura che lo circondava e respirava l'acre odore che risaliva dall'Abisso. Non vi era niente oltre quella soglia, soltanto altra oscurità.

Lentamente, notte dopo notte, cominciò a comprendere ciò che le ombre volevano da lui. Sentiva il loro richiamo, come quello di una madre angosciata che cerca di ricondurre a sé il proprio figlio. Poteva udire, al di là della soglia, la voce calda e rassicurante di un padre che lo attendeva a braccia aperte. Gradualmente la notte divenne il momento in cui rifugiarsi, mentre i giorni non erano diventati altro che un susseguirsi di ore svuotate di ogni senso, un'attesa estenuante verso il rifugio del silenzio e della veglia. La vista degli esseri umani diveniva di giorno in giorno più irritante, gli parevano soltanto piccole sagome senza vigore che cercavano di non lasciarsi sopraffare dalla vita stessa. Lui non poteva appartenere a quella stirpe di menti apatiche, di esseri che non comprendevano la bellezza della notte e non cercavano i tesori in essa racchiusi. I suoi sentimenti erano ben più vivi e violenti, i suoi desideri impronunciabili, la sua rabbia incontenibile.

Elia infine comprese che se le ombre lo chiamavano con tale insistenza era perché lui apparteneva a loro, da esse era stato generato e da esse derivava la sua più intima natura. Fu in una notte di novembre, nel letto mezzo disfatto, che Elia decise di oltrepassare la soglia, di raggiungere i suoi simili, esseri che lo avrebbero accolto in un mondo che potesse finalmente sentire suo. Allargò le braccia perché le ombre potessero avvolgerlo interamente ed esse si insinuarono tra le pieghe del pigiama, sfiorandogli la pelle, e poi su verso il suo viso, lambendolo con un tocco delicato e gelido al tempo stesso. Si spinsero nelle narici, nella bocca, giù per la gola, in spirali sempre più frenetiche. Elia sentì il respiro farsi sempre più lieve, mentre il torace si alzava e si abbassava appena. E fu dall'altra parte.

Le ombre si dissiparono, lasciando Elia in un paesaggio a lui sconosciuto, ma in qualche modo familiare. Alberi contorti e dal tronco annerito crescevano come seguendo le linee disegnate da un geometra folle, privo di senso dell'armonia. I rami piegavano verso il basso, come a voler fuggire dal cielo nero, privo di stelle. Sotto ai piedi Elia avvertì lo scricchiolare di sterpaglie secche, ma quando abbassò lo sguardo vide che i fili d'erba somigliavano più a lunghe e sottili ossa carbonizzate che a steli. L'orrore tentò di insinuarsi dentro Elia, ma in fondo lui era un demone dell'Abisso e quella era casa sua. I demoni si nutrivano dell'orrore, per cui doveva soltanto avere fiducia.

Nessuna luce illuminava i suoi passi, ma Elia percepiva lo spazio attorno a sé e gli oggetti che l'occupavano, perché ogni cosa era composta di ombra e lui era in comunicazione con l'oscurità stessa. Allo stesso modo avvertì la presenza di una figura che si stava avvicinando a lui. Una sagoma enorme, più alta di qualsiasi essere umano, gli si stagliò davanti. La sua pelle nera e spessa come cuoio ricopriva un corpo possente e completamente nudo. Sul suo volto ferino scintillavano due occhi neri come petrolio e una criniera corvina gli scendeva dall'apice della testa lungo la schiena.

- Benvenuto a casa, figlio mio.

Elia non avrebbe potuto chiedere di più. Si lanciò ad abbracciare la creatura che gli stava dinnanzi, ma il demone nero lo scostò da sé.

- Non è ancora certo che tu sia della mia stirpe. Vieni, voglio farti vedere gli uomini che sono giunti sin qui. Se dimostrerai indifferenza di fronte a tutti loro, allora potrai elevarti sopra la loro razza.

Elia non attendeva altro. Seguì la sua guida nell'oscurità, attraverso una porta di pietra grigia, sormontata da un architrave riportante una scritta che non fu in grado di leggere a causa del buio. Si chiese se avrebbe dovuto compiere quel viaggio continuando a sforzare la vista nel tentativo di vedere qualcosa. Non scorgeva sagome, ma udiva lamenti attorno a sé, che lo infastidivano e lo spingevano ad accelerare il passo.

Infine, l'Abisso si spalancò davanti ai suoi occhi, in tutta la sua magnificenza. Elia passò tronfio davanti a creature crudeli e spaventose, attraversò senza cedimenti orde di uomini nudi e sofferenti, si compiacque della propria insensibilità nei confronti delle debolezze umane, che lo avrebbero portato a strisciare nel fango o sfracellarsi contro le rocce sballottato dai venti infernali. Passò oltre la città di Dite, con le sue alte torri, fu portato a cavallo di centauro oltre il fiume di sangue ribollente, camminò in silenzio nel bosco degli alberi contorti e feriti.

I piedi di Elia calpestarono infine il ghiaccio. Solo allora si rese conto di essere scalzo, con indosso il pigiama stropicciato e sudato. Rabbrividendo, seguì il demone nero sopra il grande lago ghiacciato, lasciandosi alle spalle il caotico brulichio dei cerchi superiori. Era arrivato all'ultimo e finalmente il suo mentore e guida avrebbe compreso che lui era diverso, perché lui apparteneva a quel mondo e non ne aveva paura.

Ma al centro del lago, nel punto più profondo e desolato, non c'era ciò che Elia si sarebbe aspettato. Nel ghiaccio si apriva invece una fessura, larga appena perché un uomo potesse passarci attraverso. Elia osservò la sua guida con aria interrogativa e il demone gli concesse una spiegazione:

- E' l'ingresso per l'ultimo cerchio.

- L'ultimo cerchio?

- Sì, il decimo. Qui pervengono coloro che, invece di dissacrare il proprio corpo, lo ignorano. Coloro che non umiliano l'anima col peccato, ma la rifiutano.

Il demone nero invitò con un gesto della mano Elia ad attraversare la fenditura nel ghiaccio.

- Tu non vieni con me?

- No, il decimo cerchio non è per noi creature infernali. E' solo per gli uomini, perché solo loro possono rinunciare alla propria natura. Noi demoni condividiamo le passioni umane, perché originate dalla stessa fonte, ma non possiamo rifiutare qualcosa che non abbiamo.

Elia non era sicuro di aver compreso appieno le parole del demone nero, ma non volle mostrare titubanza, per cui annuì e mosse un passo verso la spaccatura che sembrava una cicatrice scura sulla superficie luccicante del lago ghiacciato. Ma non appena il suo piede le fu sopra, Elia sentì che il suo corpo veniva risucchiato verso il basso. Il ghiaccio non offriva appigli e le sue unghie scivolarono con uno stridio senza riuscire a frenare la sua caduta. La fessura lo inghiottì come una bocca affamata a digiuno da un tempo immemorabile ed Elia si ritrovò in un'oscurità più profonda di quella a cui si era abituato nelle sue notti insonni. Sembrava che un'unica ombra sterminata riempisse ogni cosa, plasmandosi per formare lo spazio e il tempo.

Quando urtò contro quello che doveva essere il fondo, Elia ebbe l'impressione di essere precipitato per un'eternità contratta in pochi istanti. Non provò dolore all'urto, ma lo spaventò il non aver udito il rumore dell'impatto. Si alzò in piedi tremante, mentre attorno a sé cominciavano a divenire visibili le pareti di un profondo crepaccio. Guardando in alto non si distingueva dove terminavano e delimitavano una sorta di corridoio infinito che non sembrava provenire da nessun luogo particolare né tanto meno condurre da nessuna parte. Il sentiero grigio che si snodava sul fondo del crepaccio spariva dietro larghe curve, per cui Elia aveva sia di fronte che dietro lo stesso paesaggio. Indeciso sulla direzione da prendere, si incamminò dalla parte verso la quale si era rialzato.

Per istinto si avvicinò alla parete di destra, sfiorandola con la mano e traendo conforto dalla sensazione di avere un punto di riferimento da seguire. La roccia era liscia, del colore del catrame, senza alcun appiglio visibile. Pensare di scalarla era pura follia, ma Elia non voleva risalire, voleva soltanto percorrere il fondo del crepaccio per vedere dove portava.

Camminò senza sosta per ore, seguendo le svolte dolci del percorso, e gli occhi di Elia si erano ormai adattati all'oscurità. In realtà sembrava che l'ombra stessa avesse deciso di farsi meno densa, come un velo attraverso il quale intravedere il mondo, ma soltanto in una lugubre tonalità di grigio. Lo sguardo non poteva però spaziare mai troppo lontano, perché ogni curva determinava lo spazio che gli era possibile sondare.

Elia cominciò ad avvertire la stanchezza, un esaurimento dello spirito prima che un indebolimento dei muscoli. Sospirò, desiderando che quel percorso giungesse al termine e osservò di nuovo in alto, in quel cielo nero senza stelle, chiedendosi come mai non avesse ancora incontrato nessuno. La solitudine si riversò nel suo animo come una piena improvvisa ed Elia sentì che non aveva la forza per sopportarla. Gridò ma nessun suono si propagò nell'ombra che riempiva ogni spazio. Allora si sedette e pianse. La disperazione sgorgò sotto forma di lacrime scure, mentre i singhiozzi continuavano a svanire nel silenzio demoniaco che uccideva ogni suono.

Aveva visto le miserie umane e ne aveva provato solo disprezzo, aveva udito i lamenti dei dannati e ne era stato infastidito. Ma ora era lui a soffrire, a rimpiangere la luce.

- Sai perché ti senti straziato?

La voce del demone nero gli fece alzare lo sguardo, ma non era l'infernale creatura a sovrastarlo, bensì un uomo, dall'età indefinibile e dai lineamenti anonimi. Elia lo guardò spaventato, come se quella visione fosse più terribile della fiera infernale.

- E' forse un'illusione?

- Un'illusione dici? Trovi di somigliare di più alla creatura che ti ha accolto in questo luogo o a quella che si trova ora davanti a te?

Elia osservò le proprie mani, macchiate delle lacrime nere.

- Non importa se ho l'aspetto di un uomo. Io appartengo alle ombre!

- Tu credi che la tua sia rabbia, disprezzo per il genere umano che ti è inferiore. Ma ti dico questo: è solo disperazione. Non accetti gli uomini perché non accetti te stesso e ti consumi nell'ombra perché sei troppo debole per alzare il viso alla luce.

- Tu menti! Le ombre mi chiamavano!

- Era solo l'eco dei tuoi pensieri. Stavi chiamando te stesso, cercandoti nell'Abisso in cui ti sei perduto. Ora, vuoi rimanere qui, nella desolazione di chi ha rinunciato a essere, o vuoi tornare nella tua piccola e triste stanza, affrontare la notte e tornare a essere un uomo al sorgere del sole?

- Ho forse scelta?

- Certo. Pensi che tutti coloro che hai visto quaggiù non l'abbiano avuta?


Elia si alzò e osservò la parete di roccia alle sue spalle. Solo ora intravide alcuni appigli, piccoli e malsicuri, che prima non aveva notato, o forse non c'erano mai stati.

- Sarà una risalita difficile. Pensi di farcela, uomo?

Elia non rispose, ma con la mano destra afferrò un appiglio a un paio di metri da terra. Appoggiò il piede sinistro su una sporgenza più in basso e contrasse i muscoli. La prima spinta fu faticosa, dolorosa, per il suo corpo sfinito. Riappoggiò il piede a terra, ansimando.

L'uomo rise alle sue spalle ed Elia sentì la vergogna che si spandeva sul suo viso, come una fiamma alimentata dai frammenti di orgoglio sparsi nella sua anima. Avrebbe voluto rinunciare, ma doveva per forza andarsene da quel luogo. E l'unica via d'uscita era in alto.

Riprese la scalata e tentò di ignorare il dolore. Gli spasmi ai muscoli rischiarono di farlo rovinare a terra, ma la mano sinistra trovò un appiglio un po' più in alto e i piedi la seguirono. Un centimetro alla volta, il fondo si allontanava ed Elia lo avvertiva, anche senza guardare in basso, sentiva che l'ombra si faceva meno densa, lasciando che il fruscio del suo corpo sulla roccia si propagasse. Il suono, dapprima impercettibile, lo confortò e si scoprì felice di risentire anche il battito del suo cuore, accelerato dallo sforzo fisico, ma pulsante, vivo.

Il cielo cominciò a sbiadire e l'orlo del baratro divenne finalmente visibile. Non era così distante come si sarebbe aspettato ed Elia affrontò l'ultima parte della scalata con entusiasmo. Scavalcò infine il bordo e si sedette con la gambe penzoloni, ansimando e ridendo. Elia scrutò nelle profondità del baratro e si stupì di non vedere più il fondo, che aveva toccato coi suoi stessi piedi. Si alzò e si allontanò dal bordo, ma sapeva che il baratro sarebbe stato sempre lì, pronto a trascinarlo giù ogni volta che avesse di nuovo accolto le ombre dentro di sé. Ma il suo cuore batteva e non era un cuore da demone.



“Il decimo cerchio” - 18 gennaio 2008



Partecipante al concorso "Scrivo dunque sono!" indetto dal Caffè Storico Letterario Giubbe Rosse.


giovedì 27 marzo 2008

Il volo del drago

Nelle fredde caverne scavate nel ghiaccio antartico, gli ultimi draghi riposavano, nell'attesa di uscire di nuovo per la caccia.

Il giovane Tharios osservò le scaglie blu petrolio dei propri compagni e un'ondata di malinconia lo travolse. Nianerys, la vecchia draghessa che ora giaceva avvolta dal freddo della morte e del ghiaccio eterno, gli aveva narrato di un tempo lontano in cui i draghi splendevano dei colori del sole e potevano solcare i cieli alla luce del giorno, liberi di osservare il mondo, sicuri che nessun essere vivente avrebbe mai osato contrastarli. Ma quei tempi erano passati da così tanto tempo che anche lei, con la sua vita millenaria, ricordava a malapena le leggende narrate dai più anziani.

Tharios non aveva mai visto il sole. I lunghi, immensi corridoi che portavano verso l'esterno erano stati scavati dai primi draghi che si erano dovuti rifugiare nel ghiaccio e correvano appena al di sopra del terreno sormontato dall'ammasso incalcolabile di gelida materia. Il percorso, che richiedeva intere giornate di cammino, terminava in alcuni sbocchi sottomarini, attraverso i quali i draghi entravano e uscivano durante i giorni della caccia, senza mai emergere dalla superficie del mare. Ogni tanto i draghi sentivano il bisogno di tornare a guardare il cielo e attendevano la notte per sollevare il maestoso capo al di sopra dell'acqua. In quei rari momenti, i loro sguardi erano catturati dal manto stellato, che rievocava in loro una nostalgia profonda di quando potevano dispiegare le ali sotto di esso.

La prima volta in cui Tharios partecipò all'emersione, il cielo limpido sopra la sua testa lo impressionò quasi quanto la sensazione di leggerezza che aveva provato durante la sua prima uscita in mare. Tharios osservò a lungo la miriade di punti luminosi, che gli spiegarono essere stelle, frammenti di luce che i draghi più antichi avevano sparso nel cielo oscuro per indicare la via durante le antiche migrazioni. Poi però il giovane drago fu attratto da un ammasso di stelle particolarmente fitto, che creava una sorta di nube luminosa, con al centro una chiazza rossastra che sembrava una fiamma accesa tra le stelle stesse. Ma quando chiese spiegazioni, gli risposero che era semplicemente un ammasso più fitto di stelle, niente di più, e che il rosso era semplicemente ciò che restava dell'antico fuoco da cui i draghi avevano estratto la luce.

Tharios continuò a fissare quella nube celeste ammaliato, come se quella luce rossastra pretendesse la sua attenzione. Rimase affascinato a tal punto da indurlo a tentare di spiccare il volo, cosa per cui venne ripreso duramente e punito col divieto di uscire a caccia la volta successiva. Questo fu sufficiente per far sì che non tentasse più l'impresa, ma la punizione non fu in grado di cancellare dalla sua mente i racconti della vecchia Nianerys. Fu lei infatti a spiegargli che in realtà la nube non era affatto una semplice ammasso di stelle, ma era bensì una porta, da cui gli antichi draghi, i progenitori di tutta la loro razza, erano giunti. Per questo, prima che i draghi fossero costretti a nascondersi, veniva chiamata il Varco.

- Perché non hanno voluto dirmelo? - chiese il giovane Tharios.

- Perché il dolore del ricordo è troppo grande e così i draghi preferiscono dimenticare, mentendo persino a se stessi. Potresti vivere un'intera vita, piccolo mio, pensando a una via che non puoi più percorrere? Guardando un'esistenza trascorsa a nascondersi in queste caverne ghiacciate, mentre la mente torna a epoche in cui eravamo liberi di volare nel cielo? No, meglio dimenticare, meglio non pensare a...

- A cosa?

- Alla speranza.

- La speranza? Vuoi dire che il Varco è aperto?

- Io non l'ho detto - fu la risposta sussurrata di Nianerys.

Per Tharios quelle parole ebbero l'effetto di un uragano emotivo. La sua insofferenza crebbe a tal punto che non poté più trattenersi. Cominciò a fare domande sul Varco, ottenendo risposte prima indifferenti, poi sempre più infastidite, fino alla furia degli anziani, che minacciarono di tenerlo recluso fino all'età adulta. La prospettiva di altri cento anni rinchiuso in quella prigione di ghiaccio lo fece quasi impazzire, portandolo alla paranoia e all'ossessione.

La vecchia Nianerys fu ritenuta colpevole di avergli insinuato simili pensieri assurdi e fu emarginata dal gruppo. Morì in silenzio, sotto lo sguardo gelido dei suoi compagni. Tharios tentò più e più volte di farle visita, ma gli fu sempre impedito. Quando gli comunicarono la morte della vecchia draghessa, esplose nell'ira più incontrollabile. I suoi artigli scalfivano il ghiaccio al suo passaggio e mostrava i denti affilati a chiunque gli si parasse davanti. Voleva vedere Nianerys un'ultima volta, voleva prometterle che non avrebbe dimenticato le sue parole. Ma gli anziani lo osteggiarono e più cercavano di calmarlo, dicendogli di dimenticare, più la sua furia cresceva. Infine, Tharios si incamminò verso l'imboccatura del tunnel principale, gridando che se ne sarebbe andato da loro e dalla loro falsità. Cercarono di fermarlo, ma suo padre intimò agli altri draghi di lasciare che il figlio prendesse la via verso l'uscita.

- Lasciatelo passare. Quando sarà abbastanza stanco e spaventato, vedrete che tornerà indietro.

- Ma i cunicoli sono intricati... potrebbe perdersi! - obiettò un drago anziano.

- Peggio per lui, imparerà più in fretta l'obbedienza, ammesso che non sia troppo tardi...

Tharios sapeva che il drago anziano aveva ragione. I cunicoli percorrevano chilometri e chilometri nel ghiaccio, incrociandosi con quelli di vecchie dimore ormai abbandonate. Sapeva che il rischio di non vedere l'uscita era altissimo, come quello di non riuscire a tornare indietro.

Ma la morsa che sentiva attorno a sé era ormai intollerabile. Avrebbe preferito morire arrancando, piuttosto che spegnersi nel silenzio e nell'indifferenza come Nianerys.

Si incamminò frustando la coda, senza voltarsi indietro. I suoi passi furono affrettati, furiosi, finché la loro eco divenne l'unico suono attorno a Tharios. Ascoltava i rimbombi ritmici, cercando di riportare il cuore alla stessa regolarità, ma quando finalmente l'ira si dissipò, l'ansia era ad attenderlo dietro l'ennesima svolta del cunicolo.

Non sapeva di quanto si fosse allontanato, come non aveva idea di quale direzione avesse effettivamente preso. Si fermò, nell'insulsa speranza di riuscire a orientarsi, e solo allora si accorse che c'era un altro suono cadenzato, fino a quel momento coperto dai suoi passi. Tharios capì immediatamente di essere stato seguito.

Probabilmente non era suo padre, troppo orgoglioso per inseguirlo e per pregarlo di tornare indietro. Poteva essere un anziano del branco o qualche draghessa preoccupata, ma rimase stupefatto quando, da dietro l'angolo, vide spuntare il muso delicato di Lyarna, la figlia di Goranar. Poco più di un cucciolo, la piccola draghessa si fece avanti timidamente, abbassando il capo in segno di saluto.

- Lyarna, ma cosa fai?

- Vengo con te.

- Ma sei impazzita?

- Forse quanto lo sei tu.

- Io... la strada che sto percorrendo è lunga, ci vorranno giorni prima di raggiungere il mare.

- Se continui per questo percorso, al mare non ci arriverai mai - replicò Lyarna, con un sorrisetto malizioso.

- Come? - Tharios scosse la testa, cercando di nascondere l'imbarazzo per essersi perso. - Cosa ti fa pensare che io mi sia smarrito?

- Ricordo esattamente la strada che abbiamo percorso per andare a caccia. Le ultime due volte c'ero anch'io, in caso tu non te ne fossi accorto.

Tharios si sentì avvampare. In effetti, non aveva badato alla piccola draghessa, troppo eccitato alla prospettiva di tornare a nuotare nel mare... e di rivedere il cielo.

- Ho sentito quello che hai detto e non credo affatto che le parole di Nianerys fossero i vaneggiamenti di una vecchia draghessa morente. Voglio venire con te, Tharios, e voglio passare il Varco.


L'uscita era alle loro spalle, a decine di metri di profondità sotto la superficie del mare. Avevano atteso la notte per emergere, tormentandosi minuto dopo minuto, impazienti di dare inizio al nuovo viaggio dopo i giorni trascorsi nei cunicoli ghiacciati. Lyarna non si era mai sbagliata, ma spesso agli incroci si erano dovuti fermare perché lei ricordasse con esattezza la direzione da prendere.

Ma ora erano fuori e il cielo li dominava, cosparso di migliaia di scintille ammalianti. I due giovani draghi rimasero per un tempo indefinito a osservare la volta celeste, avvertendo un richiamo atavico che si risvegliava dentro di loro. Le membrane delle ali vibrarono, disseminando gocce gelide nell'aria circostante mentre si sollevavano al di sopra della superficie. I loro corpi fremettero di eccitazione, mentre avvertivano il calore sprigionato dai muscoli in movimento.

Le ali sbatterono, prima timidamente, poi con maggior decisione. Uno, due colpi, che frustarono l'aria della notte. Infine le masse scure si sollevarono dall'acqua, innalzando onde irregolari che si infransero tutt'attorno, in due anelli di frammenti diamantini.

Erano sospesi a un paio di metri dal mare scuro, con le ali che si muovevano sempre più sicure, e l'ebrezza li avvolse improvvisa e violenta. Si sentirono come eterei, privi di peso, e si lanciarono verso l'alto gridando e ridendo, felici di essere semplicemente liberi. Fu come liberarsi di un peso, un macigno che premeva loro addosso da quando erano nati, fatto di buio e di silenzio. Ora potevano lasciare che i loro corpi si muovessero in ogni direzione, non più costretti ai percorsi obbligati dei cunicoli e alle nicchie nel ghiaccio, che, per quanto ampie, impedivano comunque di aprire le ali e di librarsi.

La felicità si mutò in stupore, quando videro la distesa bianca sotto di loro. Un immenso territorio coperto di ghiaccio si estendeva oltre il limite dell'orizzonte e i viaggi di giorni per andare a caccia sembrarono loro un niente, rispetto a quanto ci sarebbe voluto per percorrere tutta quella pianura. Ma compresero anche che volando avrebbero potuto sorvolarla in pochissimo tempo. Il solo pensiero diede nuova spinta alle loro ali e i draghi volarono sempre più in alto, verso quelle luci affascinanti e misteriose, che sembravano divenire sempre più nitide man mano che si allontanavano dal livello del mare.

La macchia rossa ora era più brillante. Aveva l'aspetto di uno sbuffo di gas colorato, dentro cui brillavano altre piccole luci bianche, stelle che non si distinguevano da terra.

Volarono ancora più in alto, ridacchiando e azzardando progetti sempre più ambiziosi su quello che avrebbero fatto una volta attraversato il Varco. Poi, però, le loro voci andarono spegnendosi a poco a poco, mentre le luci si facevano sempre più splendenti. Si resero conto di essere stanchi. Le loro ali non erano mai state abituate al movimento, se non per qualche fremito al risveglio, e ora che l'eccitazione iniziale si stava affievolendo, la fatica del volo cominciava a farsi sentire.

- Tharios, pensi che ci vorrà molto per giungere al Varco?

- A dire il vero, non lo so, ma se altri draghi prima di noi hanno fatto questo viaggio, di sicuro non potrà essere così lontano.

- Ma forse quei draghi erano abituati a volare.

Tharios si sentì improvvisamente stupido. Era stata tale la foga, tanta la speranza, che non aveva mai pensato alle difficoltà di una simile impresa. Non sapeva quanto fossero forti o preparati i draghi che avevano riempito quella distanza millenni prima, ma di sicuro non doveva trattarsi di giovani draghi inesperti, come erano loro. Ma ormai erano partiti, tornare indietro significava rientrare nella tana con la coda tra le gambe e supplicare il perdono per la loro colossale marachella. Dopodiché, ogni altro tentativo sarebbe rimasto un semplice vaneggiamento.

- Su, vedrai che non sarà poi così lontano. Non siamo abituati al volo, ma le nostre ali sono forti.

Le sue parole non furono sufficienti a risollevare Lyarna, che pareva sempre più dubbiosa e, soprattutto, stanca.

Quando fu passata circa un'altra ora, la draghessa non ne poté più e sbottò:

- Basta Tharios! Io non ce la faccio più!

- E cosa vorresti fare? - ansimò il suo giovane amico - Tornare indietro?

- Sì, esattamente.

- Ma sei pazza? Dopo non avresti più l'occasione di andartene. Rinunceresti così alla libertà?

- Ma quale libertà? Siamo stati degli sciocchi. Dovevamo dar retta agli anziani. Evidentemente i draghi che passarono il Varco erano molto più potenti di noi. O forse, più semplicemente, non esiste nessun Varco...

- No, non puoi credere a questo! Non puoi farti tormentare dai dubbi proprio ora!

- Dubbi o non dubbi, le mie ali ormai si muovono a stento. Voglio tornare giù, prima che sia troppo tardi.

- No, Lyarna, ti prego...

Ma le parole di Tharios furono rivolte al nulla. Lyarna ripiegò e cominciò la lunga discesa verso il basso, con le ali tese nel tentativo di sfruttare le correnti, troppo stremata per continuare a muoverle. Ben presto il suo corpo blu petrolio fu inghiottito dall'oscurità della notte che ancora ricopriva le terre e i mari, ma da oriente una sottile lama di luce cominciava a farsi strada nel mondo addormentato.

Tharios non poté fare a meno di distogliere i suoi pensieri da Lyarna, catturato dalla luce. Aveva sempre cercato di immaginarla, ma ora che stava comparendo di fronte ai suoi occhi, essa si mostrava ben più splendida di quanto lui avesse mai potuto credere. Strinse le palpebre, mentre la linea rosata si allargava, espandendo il suo chiarore verso l'alto. Tharios pensò che quello dovesse essere il giorno, ma si sentì miseramente stupido quando cominciò a comprendere che quello era solo l'annuncio, l'araldo dorato di uno splendore sconosciuto.

I battiti delle ali erano lenti e regolari, sufficienti a tenerlo librato in volo, mentre i suoi sensi erano totalmente rapiti da quello spettacolo divino. Tharios pensò che soltanto gli antichi draghi avessero potuto dare origine a un miracolo di tale bellezza e si convinse che la luce stessa fosse stata portata nel mondo dai suoi antichi predecessori.

A un certo punto, non poté attendere oltre. Diede una sferzata decisa con le ali e ricominciò a salire, incurante della stanchezza e dell'indolenzimento. Più saliva e più la luce diveniva sfolgorante. Guardò in su e si rese conto che il Varco, come le altre stelle, erano ormai svaniti, a parte le luci più lontane a occidente. Ma non importava, perché ora aveva una guida ancora più sicura. Sapeva che doveva soltanto salire, sempre più in alto, in modo da vedere il sole per intero.

La sfera infuocata era ormai del tutto visibile e il cielo stava assumendo una sfumatura azzurra che affascinò Tharios. Osservò le sue scaglie, del colore della notte, e provò pena per Lyarna e per tutti gli altri draghi rimasti giù, perché non avrebbero mai visto altro se non l'oscurità.

Poi arrivò il dolore. Intenso, bruciante, come se lo stessero scorticando vivo. Tharios non aveva mai conosciuto il fuoco, ma ne aveva sentito parlare dalla vecchia Nianerys, quando le narrava degli antichi draghi capaci di emettere fiamme dalle fauci, e comprese in quell'istante di cosa doveva trattarsi. Sentì un rumore sfrigolante provenire dal suo stesso corpo e si osservò incredulo. Le scaglie che lo ricoprivano stavano fumando, rilasciando sbuffi di vapore caldo che si disperdevano nell'aria del mattino. Tharios fu colto dal panico ma riuscì a rimanere in fluttuazione, dopo un movimento convulso in cui rischiò di precipitare. Il bruciore era sempre più forte e sicuramente sarebbe stato ben presto intollerabile. Gridò di dolore e di paura, incapace di comprendere come il sole, dono e meraviglia, potesse essere così terrificante.

Avrebbe continuato a urlare, se l'aria non gli avesse irritato la gola, costringendolo a tossire. Tharios fu messo di fronte alla propria disperazione e l'esistenza del Varco divenne solo un pensiero lontano, un qualcosa che in quel momento non aveva più significato.

Non lo avrebbe mai raggiunto, in fondo. Perché stava morendo, ed era la rovente luce del giorno che lo stava uccidendo.


L'aria era satura di un odore sconosciuto. Aprì gli occhi a fatica, accecato dalla luce diffusa che lo circondava.

- Si sta svegliando - bisbigliò una voce poco distante.

Tharios si sforzò di tenere gli occhi aperti, sbattendo le palpebre per mettere a fuoco ciò che lo circondava. Distinse delle sagome di fianco a lui, dalla forma nota e allo stesso tempo sconosciuta. La luce si riflesse sui loro corpi, dando vita a riflessi dorati e rossastri. Il suo cuore accelerò all'improvviso, quando si rese conto che si trattava di draghi. Cercò di alzarsi, ma cadde rovinosamente a terra, ma non così velocemente da non notare il colore delle sue scaglie. Erano nelle tonalità più calde dei rossi e degli arancioni, con screziature dorate che le rendevano ancora più brillanti.

- Cosa mi è successo? Dove mi trovo?

- Quante domande, figliolo. Non pensavo che foste diventati così irrequieti, a stare laggiù.

La voce che aveva parlato era fiera e profonda, e Tharios identificò il drago come un anziano, sicuramente più vecchio di suo padre.

- Laggiù?

- Sì, sulla Terra. Il luogo dove un tempo alcuni dei draghi presero dimora. Ma poi divenne talmente complicato convivere con quelle creature.

A Tharios girò la testa. Non aveva idea di cosa il vecchio drago stesse parlando, né quali fossero le creature a cui si stava riferendo. Si limitò quindi a fissarlo sbalordito.

- Non dirmi... non dirmi che non sai niente di niente?

Tharios scosse la testa, con uno sguardo che rifletteva tutto il suo smarrimento.

- Accidenti. Ma cosa siete diventati? Bestie ignoranti?

- Kraef, non essere così duro col giovane. Non vedi com'è spaventato?

Una voce femminile si intromise nel discorso e una draghessa dal portamento maestoso si avvicinò al vecchio drago. Anche lei doveva avere centinaia, se non migliaia di anni. Solo in quel momento Tharios si guardò attorno e vide decine di altri draghi, degli stessi colori sgargianti. Alcuni lo stavano osservando, ma tanti altri si libravano in un cielo chiaro, di pura luce.

- Piccolo mio - continuò la draghessa - qui siamo a Pentar, sede della Fiamma, origine della luce e del fuoco. Qui siamo stati generati e da qui siamo partiti per visitare gli altri mondi, attraverso i Varchi che si aprono al limitare di Pentar. I tuoi progenitori si allontanarono da qui millenni or sono, come tanti altri draghi antichi che varcarono le soglie dei cieli per poter giungere in altri luoghi, per conoscerli e abitarli. In alcuni di essi i draghi hanno prosperato, in altri trovarono solo terre morte, in alcuni si insediarono per poi venirne cacciati da altre creature più forti... o più furbe. Come sulla Terra, da dove provieni tu.

- Io non ho mai visto altre creature.

- Perché vi siete rifugiati nei ghiacci eterni che coprono alcune terre circondate dall'oceano. Alcuni si rifiutarono di vivere un'esistenza priva del calore del sole e tornarono a Pentar, ma altri si intestardirono e decisero di rimanere laggiù. Quello che doveva essere un rifugio momentaneo, divenne una dimora permanente e la paura che i draghi della Terra provavano nei confronti delle creature a due zampe divenne infine un terrore leggendario. Gli uomini, così si chiamano quelle creature tra loro, sono piccoli e deboli, ma il loro intelletto permette loro di affrontare e spesso uccidere un essere maestoso come un drago.

- Com'è possibile?

- Chiedilo a chi si trovò costretto a fuggire nel ghiaccio - si intromise Kraef brusco.

- Kraef, è troppo piccolo per ricordare. Sono passati millenni da quando alcuni uomini divennero un pericolo per i draghi.

- Bah, pericolo. Potevano ben combatterli col fuoco!

Lo sguardo della draghessa lo fulminò e Kraef si trovò a giustificarsi:

- No, hai ragione, non potevano, non più...

- Che significa? - chiese Tharios sempre più impaziente.

- I draghi hanno il potere del fuoco, piccolo mio, ma soltanto finché restano a contatto con la Fiamma. Coloro che scelsero di allontanarsi da Pentar persero col tempo la capacità di generare il fuoco dai propri corpi. Gli uomini capirono infine che un drago senza fuoco non era più un nemico temibile e cercarono in ogni occasione di ucciderci, terrorizzati dalle nostre dimensioni. Certo, avremmo potuto contrastarli, ma che senso aveva continuare a combattere e a versare sangue? Così molti di noi decisero di tornare indietro, ma non così alcuni dei draghi più orgogliosi. Siccome erano rimasti in pochi, decisero di rifugiarsi temporaneamente nel continente ghiacciato, per poi tornare alla carica quando i tempi fossero stati migliori. Inutile dire che questi non sono mai giunti...

Tharios rimase in silenzio, poi gli cadde nuovamente lo sguardo sulle sue nuove scaglie.

- Perché le mie scaglie sono diventate come le vostre? Erano scure, di un blu nero come la notte...

La draghessa si mostrò sorpresa e fu Kraef a prendere la parola.

- Noi siamo figli della Fiamma. Lontani da essa ci spegniamo, come fuochi non più alimentati.

Tharios comprese infine. L'oscurità a cui si erano condannati aveva affievolito la luce di cui i draghi vivevano. E, inesorabile, l'avrebbe infine spenta. Questo pensiero lo angosciò.

- Devo tornare. Devo avvertire gli altri di lasciare subito la Terra. Oh... - la consapevolezza gli piombò addosso come un'onda gelida dell'oceano. Se gli altri draghi erano tornati indietro poche centinaia di anni prima, i più anziani del gruppo, come anche suo padre, dovevano per forza conoscere la verità. Continuavano a negare non perché non gli credessero, ma perché ormai, anche se mangiavano e respiravano ancora, erano già spenti.

La voce di Kraef si eresse autoritaria, ma carica di dolore:

- E' il loro orgoglio a frenarli. Non ammetteranno mai di essersi sbagliati e non accetteranno mai di lasciare da perdenti quel mondo.

Tharios ripensò a Lyarna e a tutti gli altri che erano rimasti nel gelo e nell'oscurità. Il suo cuore si riempì di pena per loro, ma un calore piacevole lavò via la sua tristezza.

- Vieni piccolo - lo invitò la draghessa. - Per loro non puoi fare più nulla, ma hai salvato te stesso. Ora la Fiamma può espandersi anche in te e, se lo vorrai, potrai essere un portatore di luce.

- Un portatore di luce?

- Sì, per tutti coloro che non ricordano più la via per tornare.

La draghessa guardò in alto e Tharios distinse nel cielo migliaia di nubi rosse come il fuoco.


“Il volo del drago” - 9 gennaio 2008


Partecipante alla prima edizione dello Zampaconcorso indetto da Zampanera Editore (http://www.zampaneraeditore.it/index.htm)


domenica 23 marzo 2008

Neil Gaiman - Nessun dove


Sono passati alcuni giorni da quando ho terminato di leggere questo libro divertente e scorrevole come un torrente di acqua fresca montana, eppure straordinariamente profondo e delicato nell'affrontare temi difficili come la morte e l'amicizia.
La quotidianità si affianca alla straordinarietà, dando origine a una miscela che confonde e che porta a chiedersi quale delle due realtà sia quella giusta, quella più vera.
Di sicuro l'inventiva di Gaiman è incredibile, riuscendo a rievocare in una Londra banale e grigia un mondo fantastico, letale ma meraviglioso.
La favola del protagonista è bella e condivisa, finché non giunge al termine. Ed ecco che lui chiede di poter tornare indietro, a quella Londra dove "la cosa più pericolosa a cui devi fare attenzione è un taxi che va di fretta".
Ora, immagino che quel passaggio fosse stato messo apposta per far sentire il lettore come una sorta di grillo parlante, di quello che sa che in breve tempo la Londra di Sotto avrebbe fatto sentire la propria nostalgia incontrastabile.
Invece, quando ho letto quella frase, la prima cosa che ho pensato è che sì, è tutto bello, tutto fantastico, ma quanto ci piace alla fine la nostra vita tranquilla, dove ti basta prendere un antibiotico se stai male o aprire un rubinetto per avere tutta l'acqua calda del mondo.
A tutti piace fantasticare su una realtà diversa, ricca di stupore, capace di farci dimenticare la monotonia che a volte piomba inesorabile nelle nostre esistenze, ma quanto saremmo veramente disposti a sacrificare per vivere la favola? Quanto saremmo disposti a rischiare per il brivido del fantastico?
Un libro leggero, carino, ma che ancora mi gira per la testa dopo giorni dalla lettura.
Un ottimo esempio di come anche uno stile ironico e poco ricercato possa plasmare contenuti degni di essere ricordati.

martedì 11 marzo 2008

Lacrime nella pioggia


La pioggia faceva avvertire la sua presenza con lievi ticchettii sul vetro, amplificati dalla stanza vuota e silenziosa, che li mutava in un suono ritmico, regolare. Il letto sembrava particolarmente freddo, notò Rose, e l'umidità filtrava attraverso il vecchio materasso come a volerne impregnare ogni più piccolo recesso. Era una pioggia senza fulmini né tuoni, priva della violenza dei temporali, ma anche della pace dei lenti scrosci autunnali. Sembrava piuttosto il lamento sommesso di un vecchio malato, senza più forza né dignità. O forse assomigliava di più al pianto di un bambino?

Rose ripensò al suo piccolo Steve, che se ne era andato così piccolo, così innocente, portato via dal fiume durante una piena, mentre passeggiava mano nella mano con lei e suo marito Dave. A pensarci bene, era proprio una giornata uggiosa come quella, in cui nessuno avrebbe immaginato uno straripamento del Tirly, così quieto e inoffensivo, ma anche con così poco spazio per contenere le acque impetuose di un temporale estivo. In quei due mesi Rose non aveva fatto altro che vedere il volto del suo bambino di sei anni livido e inespressivo, mentre nella sua testa continuava a sentire il suo lamento, la sua denuncia dell'abominevole ingiustizia che gli era toccata. In realtà il suo corpicino non era mai stato ritrovato e questo non faceva altro che alimentare l'incubo a occhi aperti di Rose.

Le gocce iniziarono a picchiare più forte e la finestra rispose con vibrazioni irritate. Rose sistemò il cuscino, per poi raccogliere le coperte attorno al corpo infreddolito. Dave non era ancora venuto a letto e tutto quello spazio vuoto non tratteneva abbastanza calore per lei. All'improvviso, il libro che stava leggendo le risultò insoddisfacente. La storia le apparve estranea, non in armonia col suo attuale stato d'animo. Dopo aver letto e riletto le stesse righe per una decina di volte, si rese conto che non riusciva ad afferrare il senso delle parole. Sapeva che quando accadeva era il momento di chiudere il libro e, con un sospiro seccato, piegò l'angolo in alto a destra per tenere il segno. Appoggiò il libro sul comodino e spense la luce. Un gesto consueto, istintivo, ma che in quel momento fu fonte di un'angoscia inaspettata. Si rifugiò frettolosamente sotto le coperte di lana accatastate, mentre fuori vento e acqua intonavano il loro canto tragico.

Un colpo secco fece stridere i vetri, che rimasero integri per miracolo. Due mani livide, col palmo appoggiato al vetro, erano apparse alla finestra. Rose non urlò, la sua gola non glielo permise, chiusa in un'apnea paralizzante. Il cuore, dopo aver saltato un colpo, si lasciò andare alla più sfrenata tachicardia e sudore gelido filtrò dai pori della pelle. Le mani fuori dalla finestra si aggrapparono al bordo inferiore dell'intelaiatura, contraendosi nello sforzo di sollevare un peso. Rose non riusciva a scorgere il resto del corpo a cui appartenevano quegli arti, ma poteva vedere le piccole dita sottili che facevano forza sul legno scheggiato. Frammenti di vecchia vernice bianca si staccavano sotto la loro presa, mentre il dorso si inarcava per azione di inesistenti muscoli.

“Non voglio vedere, non voglio, non voglio!”

Rose affondò nelle coperte, testa compresa, raccogliendosi in posizione fetale e stringendo le mani sul capo. Il suono era debole, si udiva appena al di sopra degli scrosci, ma sapeva che quel lamento tetro era reale, non più un effetto della pioggia. Forse, non lo era neppure prima. Piangeva, piangeva e spingeva. Rose avvertì una convulsione di terrore lungo il corpo, mentre realizzava che quell'essere, qualunque cosa fosse, voleva entrare nella stanza.

Un altro colpo sul vetro, più forte del precedente. “Mio Dio, sta veramente tentando di sfondarlo?”

Da un angolo nascosto, la sua coscienza voleva rassicurarla, dicendole che non poteva farcela, che quella creatura non poteva avere la forza necessaria per infrangerlo. Eppure i palmi scarni continuavano a battere incessantemente, mentre vibrazioni distorte rimbalzavano nella stanza. Rose non poté fare altro che premere le mani sulle orecchie, per non udire quel pianto di fame e di terrore. Non riusciva più contrastare i brividi, mentre il panico la strangolava da dentro, afferrando con crudeltà il cuore ormai impazzito, ormai costretto ad arrendersi.

Il vetro, in uno schianto stridente, si frantumò. Rose trattenne il respiro, ma il battito del suo cuore le martellava in testa. Non sentì nulla per un tempo indefinito, poi il tonfo sul pavimento distrusse ogni sua speranza. Sentì frugare sul bordo del letto e tutta l'aria tenuta compressa nei polmoni esplose in un urlo talmente straziato che le fece male al petto.

“Daaaaave! Daaaaave! Ti pregooooo!”

La gelida mano bianca trovò uno spiraglio tra le coperte e la toccò. Una carezza leggera, sulla pelle lasciata nuda dalla maglia del pigiama troppo corta. Rose smise di urlare e ascoltò rapita il respiro lento e rantolante della creatura dietro di lei. L'essere, con lentezza sfinente, si sollevò sul letto, le si avvicinò, poggiando la testa dietro la sua spalla. Lei avvertì l'odore di foglie marcite dalla pioggia, odore di fango e di morte. Ma si quietò, perché conosceva quel respiro.

“Mamma”, sussurrò la creatura. La voce aveva perso il timbro limpido e squillante, era divenuta gorgogliante, melmosa. Ma non poteva non riconoscere lo stesso tono con cui il suo piccolo Steve la chiamava a ogni ora del giorno.

“Piccolo mio.”

Parlò senza rendersene conto e, altrettanto inconsciamente, si girò. Il suo viso, grigiastro e putrefatto, la riempì di orrore, ma Rose non urlò questa volta. “Hai fame, piccolino?”, gli chiese con la dolcezza che solo una madre può riservare al proprio bambino. La creatura osservò la mano che le veniva protesa davanti e, senza esitazione, strappò un brandello di carne dalla mano di Rose. Ancora una volta, lei non si lasciò sfuggire neanche un gemito. Il dolore non era nulla a confronto della gioia di nutrire la propria creatura.

Dei passi nel corridoio la fecero tornare alla realtà. Suo marito stava venendo a letto e sarebbe di certo rimasto inorridito, non avrebbe capito il miracolo a cui lei stessa stava assistendo. Guardò il suo piccolino che continuava a straziarle la carne, le ossa della mano ormai esposte, e decise che non avrebbe mai permesso a nessuno di portarle via ciò che le era appena stato restituito. Fece una carezza alla testa glabra, incurante della pelle grigia e untuosa, poi si alzò dal letto, consapevole dello sguardo affamato dell'essere.

“Torno subito”, sussurrò con tenerezza.

Dave aprì la porta e si trovò davanti sua moglie, in piedi e... con la mano sinistra scarnificata e gocciolante sangue. “Rose, mio Dio Rose, che ti è successo?”, gridò con tutto l'orrore che il suo animo era stato in grado di evocare.

Lei sorrise. Non disse nulla, ma sorrise placidamente e con una luce euforica negli occhi. Dave pensò che la depressione per il lutto avesse lasciato il posto alla follia e fece per abbracciare la moglie, tentando di riportarla alla ragione. Ma Rose alzò di scatto il braccio destro contro di lui, con la mano che reggeva un oggetto che Dave non ebbe il tempo di identificare. Non vide più nulla, sentiva solo il pavimento di marmo freddo sotto di lui e il dolore bruciante che si spandeva nella sua testa a ondate strazianti. Balbettò il nome della moglie e la sentì accovacciarsi di fianco a lui. Tentò di sollevare la testa, ottenendo in cambio soltanto una fitta ancor più lacerante. Solo in quel momento lo vide, piccolo, livido e con due occhi bianchi di morte. Avrebbe voluto gridare, ma il sangue dalla fronte gli colò in bocca, provocandogli conati di vomito.

Vide Rose porgere la mano straziata alla creatura, che si avventò su di essa, staccando muscoli e cartilagini. Sua moglie non stava urlando, anzi, sorrideva con gli occhi bagnati di lacrime di commozione. Poi la vide indicarlo, mentre diceva qualcosa come “Vai da papà, anche lui vuole darti la pappa. Devi avere così fame, piccolo mio”.

Dave avrebbe voluto svegliarsi da quell'incubo, ma il dolore al capo gli diceva che non c'era modo di sfuggire all'orrore. L'essere si avvicinò camminando in modo innaturale, come se non potesse coordinare il movimento di tutti i muscoli. I suoi passi incerti lo rendevano ancora più grottesco, ma il suo sguardo era la cosa più inquietante, così perso nel nulla, come se non fosse importante vedere, quando bastava seguire l'odore del sangue. Vide la bocca nerastra aprirsi mentre si abbassava sul suo viso, scoprendo denti giallastri e scheggiati. Dolore si aggiunse al dolore, quando sentì quelle piccole zanne affondargli nel viso. La creatura gli strappò con un singolo movimento l'intera guancia, lasciando scoperte le arcate dentarie. Questa volta Dave riuscì ad urlare, in un'esplosione di sofferenza e di paura. Forse qualcuno l'avrebbe sentito, forse i vicini sarebbero accorsi. Ma la mano di Rose scese di nuovo a colpirlo. E il dolore cessò.


Fuori aveva ormai smesso di piovere e grosse gocce si tuffavano a intervalli regolari dalle grondaie e dai tetti. Rose sorrise. Non c'erano più lamenti, non c'erano più lacrime nella pioggia.


“Lacrime nella pioggia” - 29 novembre 2007


25° posto al concorso "BUONANOTTE E SOGNI D'HORROR", I edizione 2007, organizzato da Sognihorror.com (www.sognihorror.com)