giovedì 27 marzo 2008

Il volo del drago

Nelle fredde caverne scavate nel ghiaccio antartico, gli ultimi draghi riposavano, nell'attesa di uscire di nuovo per la caccia.

Il giovane Tharios osservò le scaglie blu petrolio dei propri compagni e un'ondata di malinconia lo travolse. Nianerys, la vecchia draghessa che ora giaceva avvolta dal freddo della morte e del ghiaccio eterno, gli aveva narrato di un tempo lontano in cui i draghi splendevano dei colori del sole e potevano solcare i cieli alla luce del giorno, liberi di osservare il mondo, sicuri che nessun essere vivente avrebbe mai osato contrastarli. Ma quei tempi erano passati da così tanto tempo che anche lei, con la sua vita millenaria, ricordava a malapena le leggende narrate dai più anziani.

Tharios non aveva mai visto il sole. I lunghi, immensi corridoi che portavano verso l'esterno erano stati scavati dai primi draghi che si erano dovuti rifugiare nel ghiaccio e correvano appena al di sopra del terreno sormontato dall'ammasso incalcolabile di gelida materia. Il percorso, che richiedeva intere giornate di cammino, terminava in alcuni sbocchi sottomarini, attraverso i quali i draghi entravano e uscivano durante i giorni della caccia, senza mai emergere dalla superficie del mare. Ogni tanto i draghi sentivano il bisogno di tornare a guardare il cielo e attendevano la notte per sollevare il maestoso capo al di sopra dell'acqua. In quei rari momenti, i loro sguardi erano catturati dal manto stellato, che rievocava in loro una nostalgia profonda di quando potevano dispiegare le ali sotto di esso.

La prima volta in cui Tharios partecipò all'emersione, il cielo limpido sopra la sua testa lo impressionò quasi quanto la sensazione di leggerezza che aveva provato durante la sua prima uscita in mare. Tharios osservò a lungo la miriade di punti luminosi, che gli spiegarono essere stelle, frammenti di luce che i draghi più antichi avevano sparso nel cielo oscuro per indicare la via durante le antiche migrazioni. Poi però il giovane drago fu attratto da un ammasso di stelle particolarmente fitto, che creava una sorta di nube luminosa, con al centro una chiazza rossastra che sembrava una fiamma accesa tra le stelle stesse. Ma quando chiese spiegazioni, gli risposero che era semplicemente un ammasso più fitto di stelle, niente di più, e che il rosso era semplicemente ciò che restava dell'antico fuoco da cui i draghi avevano estratto la luce.

Tharios continuò a fissare quella nube celeste ammaliato, come se quella luce rossastra pretendesse la sua attenzione. Rimase affascinato a tal punto da indurlo a tentare di spiccare il volo, cosa per cui venne ripreso duramente e punito col divieto di uscire a caccia la volta successiva. Questo fu sufficiente per far sì che non tentasse più l'impresa, ma la punizione non fu in grado di cancellare dalla sua mente i racconti della vecchia Nianerys. Fu lei infatti a spiegargli che in realtà la nube non era affatto una semplice ammasso di stelle, ma era bensì una porta, da cui gli antichi draghi, i progenitori di tutta la loro razza, erano giunti. Per questo, prima che i draghi fossero costretti a nascondersi, veniva chiamata il Varco.

- Perché non hanno voluto dirmelo? - chiese il giovane Tharios.

- Perché il dolore del ricordo è troppo grande e così i draghi preferiscono dimenticare, mentendo persino a se stessi. Potresti vivere un'intera vita, piccolo mio, pensando a una via che non puoi più percorrere? Guardando un'esistenza trascorsa a nascondersi in queste caverne ghiacciate, mentre la mente torna a epoche in cui eravamo liberi di volare nel cielo? No, meglio dimenticare, meglio non pensare a...

- A cosa?

- Alla speranza.

- La speranza? Vuoi dire che il Varco è aperto?

- Io non l'ho detto - fu la risposta sussurrata di Nianerys.

Per Tharios quelle parole ebbero l'effetto di un uragano emotivo. La sua insofferenza crebbe a tal punto che non poté più trattenersi. Cominciò a fare domande sul Varco, ottenendo risposte prima indifferenti, poi sempre più infastidite, fino alla furia degli anziani, che minacciarono di tenerlo recluso fino all'età adulta. La prospettiva di altri cento anni rinchiuso in quella prigione di ghiaccio lo fece quasi impazzire, portandolo alla paranoia e all'ossessione.

La vecchia Nianerys fu ritenuta colpevole di avergli insinuato simili pensieri assurdi e fu emarginata dal gruppo. Morì in silenzio, sotto lo sguardo gelido dei suoi compagni. Tharios tentò più e più volte di farle visita, ma gli fu sempre impedito. Quando gli comunicarono la morte della vecchia draghessa, esplose nell'ira più incontrollabile. I suoi artigli scalfivano il ghiaccio al suo passaggio e mostrava i denti affilati a chiunque gli si parasse davanti. Voleva vedere Nianerys un'ultima volta, voleva prometterle che non avrebbe dimenticato le sue parole. Ma gli anziani lo osteggiarono e più cercavano di calmarlo, dicendogli di dimenticare, più la sua furia cresceva. Infine, Tharios si incamminò verso l'imboccatura del tunnel principale, gridando che se ne sarebbe andato da loro e dalla loro falsità. Cercarono di fermarlo, ma suo padre intimò agli altri draghi di lasciare che il figlio prendesse la via verso l'uscita.

- Lasciatelo passare. Quando sarà abbastanza stanco e spaventato, vedrete che tornerà indietro.

- Ma i cunicoli sono intricati... potrebbe perdersi! - obiettò un drago anziano.

- Peggio per lui, imparerà più in fretta l'obbedienza, ammesso che non sia troppo tardi...

Tharios sapeva che il drago anziano aveva ragione. I cunicoli percorrevano chilometri e chilometri nel ghiaccio, incrociandosi con quelli di vecchie dimore ormai abbandonate. Sapeva che il rischio di non vedere l'uscita era altissimo, come quello di non riuscire a tornare indietro.

Ma la morsa che sentiva attorno a sé era ormai intollerabile. Avrebbe preferito morire arrancando, piuttosto che spegnersi nel silenzio e nell'indifferenza come Nianerys.

Si incamminò frustando la coda, senza voltarsi indietro. I suoi passi furono affrettati, furiosi, finché la loro eco divenne l'unico suono attorno a Tharios. Ascoltava i rimbombi ritmici, cercando di riportare il cuore alla stessa regolarità, ma quando finalmente l'ira si dissipò, l'ansia era ad attenderlo dietro l'ennesima svolta del cunicolo.

Non sapeva di quanto si fosse allontanato, come non aveva idea di quale direzione avesse effettivamente preso. Si fermò, nell'insulsa speranza di riuscire a orientarsi, e solo allora si accorse che c'era un altro suono cadenzato, fino a quel momento coperto dai suoi passi. Tharios capì immediatamente di essere stato seguito.

Probabilmente non era suo padre, troppo orgoglioso per inseguirlo e per pregarlo di tornare indietro. Poteva essere un anziano del branco o qualche draghessa preoccupata, ma rimase stupefatto quando, da dietro l'angolo, vide spuntare il muso delicato di Lyarna, la figlia di Goranar. Poco più di un cucciolo, la piccola draghessa si fece avanti timidamente, abbassando il capo in segno di saluto.

- Lyarna, ma cosa fai?

- Vengo con te.

- Ma sei impazzita?

- Forse quanto lo sei tu.

- Io... la strada che sto percorrendo è lunga, ci vorranno giorni prima di raggiungere il mare.

- Se continui per questo percorso, al mare non ci arriverai mai - replicò Lyarna, con un sorrisetto malizioso.

- Come? - Tharios scosse la testa, cercando di nascondere l'imbarazzo per essersi perso. - Cosa ti fa pensare che io mi sia smarrito?

- Ricordo esattamente la strada che abbiamo percorso per andare a caccia. Le ultime due volte c'ero anch'io, in caso tu non te ne fossi accorto.

Tharios si sentì avvampare. In effetti, non aveva badato alla piccola draghessa, troppo eccitato alla prospettiva di tornare a nuotare nel mare... e di rivedere il cielo.

- Ho sentito quello che hai detto e non credo affatto che le parole di Nianerys fossero i vaneggiamenti di una vecchia draghessa morente. Voglio venire con te, Tharios, e voglio passare il Varco.


L'uscita era alle loro spalle, a decine di metri di profondità sotto la superficie del mare. Avevano atteso la notte per emergere, tormentandosi minuto dopo minuto, impazienti di dare inizio al nuovo viaggio dopo i giorni trascorsi nei cunicoli ghiacciati. Lyarna non si era mai sbagliata, ma spesso agli incroci si erano dovuti fermare perché lei ricordasse con esattezza la direzione da prendere.

Ma ora erano fuori e il cielo li dominava, cosparso di migliaia di scintille ammalianti. I due giovani draghi rimasero per un tempo indefinito a osservare la volta celeste, avvertendo un richiamo atavico che si risvegliava dentro di loro. Le membrane delle ali vibrarono, disseminando gocce gelide nell'aria circostante mentre si sollevavano al di sopra della superficie. I loro corpi fremettero di eccitazione, mentre avvertivano il calore sprigionato dai muscoli in movimento.

Le ali sbatterono, prima timidamente, poi con maggior decisione. Uno, due colpi, che frustarono l'aria della notte. Infine le masse scure si sollevarono dall'acqua, innalzando onde irregolari che si infransero tutt'attorno, in due anelli di frammenti diamantini.

Erano sospesi a un paio di metri dal mare scuro, con le ali che si muovevano sempre più sicure, e l'ebrezza li avvolse improvvisa e violenta. Si sentirono come eterei, privi di peso, e si lanciarono verso l'alto gridando e ridendo, felici di essere semplicemente liberi. Fu come liberarsi di un peso, un macigno che premeva loro addosso da quando erano nati, fatto di buio e di silenzio. Ora potevano lasciare che i loro corpi si muovessero in ogni direzione, non più costretti ai percorsi obbligati dei cunicoli e alle nicchie nel ghiaccio, che, per quanto ampie, impedivano comunque di aprire le ali e di librarsi.

La felicità si mutò in stupore, quando videro la distesa bianca sotto di loro. Un immenso territorio coperto di ghiaccio si estendeva oltre il limite dell'orizzonte e i viaggi di giorni per andare a caccia sembrarono loro un niente, rispetto a quanto ci sarebbe voluto per percorrere tutta quella pianura. Ma compresero anche che volando avrebbero potuto sorvolarla in pochissimo tempo. Il solo pensiero diede nuova spinta alle loro ali e i draghi volarono sempre più in alto, verso quelle luci affascinanti e misteriose, che sembravano divenire sempre più nitide man mano che si allontanavano dal livello del mare.

La macchia rossa ora era più brillante. Aveva l'aspetto di uno sbuffo di gas colorato, dentro cui brillavano altre piccole luci bianche, stelle che non si distinguevano da terra.

Volarono ancora più in alto, ridacchiando e azzardando progetti sempre più ambiziosi su quello che avrebbero fatto una volta attraversato il Varco. Poi, però, le loro voci andarono spegnendosi a poco a poco, mentre le luci si facevano sempre più splendenti. Si resero conto di essere stanchi. Le loro ali non erano mai state abituate al movimento, se non per qualche fremito al risveglio, e ora che l'eccitazione iniziale si stava affievolendo, la fatica del volo cominciava a farsi sentire.

- Tharios, pensi che ci vorrà molto per giungere al Varco?

- A dire il vero, non lo so, ma se altri draghi prima di noi hanno fatto questo viaggio, di sicuro non potrà essere così lontano.

- Ma forse quei draghi erano abituati a volare.

Tharios si sentì improvvisamente stupido. Era stata tale la foga, tanta la speranza, che non aveva mai pensato alle difficoltà di una simile impresa. Non sapeva quanto fossero forti o preparati i draghi che avevano riempito quella distanza millenni prima, ma di sicuro non doveva trattarsi di giovani draghi inesperti, come erano loro. Ma ormai erano partiti, tornare indietro significava rientrare nella tana con la coda tra le gambe e supplicare il perdono per la loro colossale marachella. Dopodiché, ogni altro tentativo sarebbe rimasto un semplice vaneggiamento.

- Su, vedrai che non sarà poi così lontano. Non siamo abituati al volo, ma le nostre ali sono forti.

Le sue parole non furono sufficienti a risollevare Lyarna, che pareva sempre più dubbiosa e, soprattutto, stanca.

Quando fu passata circa un'altra ora, la draghessa non ne poté più e sbottò:

- Basta Tharios! Io non ce la faccio più!

- E cosa vorresti fare? - ansimò il suo giovane amico - Tornare indietro?

- Sì, esattamente.

- Ma sei pazza? Dopo non avresti più l'occasione di andartene. Rinunceresti così alla libertà?

- Ma quale libertà? Siamo stati degli sciocchi. Dovevamo dar retta agli anziani. Evidentemente i draghi che passarono il Varco erano molto più potenti di noi. O forse, più semplicemente, non esiste nessun Varco...

- No, non puoi credere a questo! Non puoi farti tormentare dai dubbi proprio ora!

- Dubbi o non dubbi, le mie ali ormai si muovono a stento. Voglio tornare giù, prima che sia troppo tardi.

- No, Lyarna, ti prego...

Ma le parole di Tharios furono rivolte al nulla. Lyarna ripiegò e cominciò la lunga discesa verso il basso, con le ali tese nel tentativo di sfruttare le correnti, troppo stremata per continuare a muoverle. Ben presto il suo corpo blu petrolio fu inghiottito dall'oscurità della notte che ancora ricopriva le terre e i mari, ma da oriente una sottile lama di luce cominciava a farsi strada nel mondo addormentato.

Tharios non poté fare a meno di distogliere i suoi pensieri da Lyarna, catturato dalla luce. Aveva sempre cercato di immaginarla, ma ora che stava comparendo di fronte ai suoi occhi, essa si mostrava ben più splendida di quanto lui avesse mai potuto credere. Strinse le palpebre, mentre la linea rosata si allargava, espandendo il suo chiarore verso l'alto. Tharios pensò che quello dovesse essere il giorno, ma si sentì miseramente stupido quando cominciò a comprendere che quello era solo l'annuncio, l'araldo dorato di uno splendore sconosciuto.

I battiti delle ali erano lenti e regolari, sufficienti a tenerlo librato in volo, mentre i suoi sensi erano totalmente rapiti da quello spettacolo divino. Tharios pensò che soltanto gli antichi draghi avessero potuto dare origine a un miracolo di tale bellezza e si convinse che la luce stessa fosse stata portata nel mondo dai suoi antichi predecessori.

A un certo punto, non poté attendere oltre. Diede una sferzata decisa con le ali e ricominciò a salire, incurante della stanchezza e dell'indolenzimento. Più saliva e più la luce diveniva sfolgorante. Guardò in su e si rese conto che il Varco, come le altre stelle, erano ormai svaniti, a parte le luci più lontane a occidente. Ma non importava, perché ora aveva una guida ancora più sicura. Sapeva che doveva soltanto salire, sempre più in alto, in modo da vedere il sole per intero.

La sfera infuocata era ormai del tutto visibile e il cielo stava assumendo una sfumatura azzurra che affascinò Tharios. Osservò le sue scaglie, del colore della notte, e provò pena per Lyarna e per tutti gli altri draghi rimasti giù, perché non avrebbero mai visto altro se non l'oscurità.

Poi arrivò il dolore. Intenso, bruciante, come se lo stessero scorticando vivo. Tharios non aveva mai conosciuto il fuoco, ma ne aveva sentito parlare dalla vecchia Nianerys, quando le narrava degli antichi draghi capaci di emettere fiamme dalle fauci, e comprese in quell'istante di cosa doveva trattarsi. Sentì un rumore sfrigolante provenire dal suo stesso corpo e si osservò incredulo. Le scaglie che lo ricoprivano stavano fumando, rilasciando sbuffi di vapore caldo che si disperdevano nell'aria del mattino. Tharios fu colto dal panico ma riuscì a rimanere in fluttuazione, dopo un movimento convulso in cui rischiò di precipitare. Il bruciore era sempre più forte e sicuramente sarebbe stato ben presto intollerabile. Gridò di dolore e di paura, incapace di comprendere come il sole, dono e meraviglia, potesse essere così terrificante.

Avrebbe continuato a urlare, se l'aria non gli avesse irritato la gola, costringendolo a tossire. Tharios fu messo di fronte alla propria disperazione e l'esistenza del Varco divenne solo un pensiero lontano, un qualcosa che in quel momento non aveva più significato.

Non lo avrebbe mai raggiunto, in fondo. Perché stava morendo, ed era la rovente luce del giorno che lo stava uccidendo.


L'aria era satura di un odore sconosciuto. Aprì gli occhi a fatica, accecato dalla luce diffusa che lo circondava.

- Si sta svegliando - bisbigliò una voce poco distante.

Tharios si sforzò di tenere gli occhi aperti, sbattendo le palpebre per mettere a fuoco ciò che lo circondava. Distinse delle sagome di fianco a lui, dalla forma nota e allo stesso tempo sconosciuta. La luce si riflesse sui loro corpi, dando vita a riflessi dorati e rossastri. Il suo cuore accelerò all'improvviso, quando si rese conto che si trattava di draghi. Cercò di alzarsi, ma cadde rovinosamente a terra, ma non così velocemente da non notare il colore delle sue scaglie. Erano nelle tonalità più calde dei rossi e degli arancioni, con screziature dorate che le rendevano ancora più brillanti.

- Cosa mi è successo? Dove mi trovo?

- Quante domande, figliolo. Non pensavo che foste diventati così irrequieti, a stare laggiù.

La voce che aveva parlato era fiera e profonda, e Tharios identificò il drago come un anziano, sicuramente più vecchio di suo padre.

- Laggiù?

- Sì, sulla Terra. Il luogo dove un tempo alcuni dei draghi presero dimora. Ma poi divenne talmente complicato convivere con quelle creature.

A Tharios girò la testa. Non aveva idea di cosa il vecchio drago stesse parlando, né quali fossero le creature a cui si stava riferendo. Si limitò quindi a fissarlo sbalordito.

- Non dirmi... non dirmi che non sai niente di niente?

Tharios scosse la testa, con uno sguardo che rifletteva tutto il suo smarrimento.

- Accidenti. Ma cosa siete diventati? Bestie ignoranti?

- Kraef, non essere così duro col giovane. Non vedi com'è spaventato?

Una voce femminile si intromise nel discorso e una draghessa dal portamento maestoso si avvicinò al vecchio drago. Anche lei doveva avere centinaia, se non migliaia di anni. Solo in quel momento Tharios si guardò attorno e vide decine di altri draghi, degli stessi colori sgargianti. Alcuni lo stavano osservando, ma tanti altri si libravano in un cielo chiaro, di pura luce.

- Piccolo mio - continuò la draghessa - qui siamo a Pentar, sede della Fiamma, origine della luce e del fuoco. Qui siamo stati generati e da qui siamo partiti per visitare gli altri mondi, attraverso i Varchi che si aprono al limitare di Pentar. I tuoi progenitori si allontanarono da qui millenni or sono, come tanti altri draghi antichi che varcarono le soglie dei cieli per poter giungere in altri luoghi, per conoscerli e abitarli. In alcuni di essi i draghi hanno prosperato, in altri trovarono solo terre morte, in alcuni si insediarono per poi venirne cacciati da altre creature più forti... o più furbe. Come sulla Terra, da dove provieni tu.

- Io non ho mai visto altre creature.

- Perché vi siete rifugiati nei ghiacci eterni che coprono alcune terre circondate dall'oceano. Alcuni si rifiutarono di vivere un'esistenza priva del calore del sole e tornarono a Pentar, ma altri si intestardirono e decisero di rimanere laggiù. Quello che doveva essere un rifugio momentaneo, divenne una dimora permanente e la paura che i draghi della Terra provavano nei confronti delle creature a due zampe divenne infine un terrore leggendario. Gli uomini, così si chiamano quelle creature tra loro, sono piccoli e deboli, ma il loro intelletto permette loro di affrontare e spesso uccidere un essere maestoso come un drago.

- Com'è possibile?

- Chiedilo a chi si trovò costretto a fuggire nel ghiaccio - si intromise Kraef brusco.

- Kraef, è troppo piccolo per ricordare. Sono passati millenni da quando alcuni uomini divennero un pericolo per i draghi.

- Bah, pericolo. Potevano ben combatterli col fuoco!

Lo sguardo della draghessa lo fulminò e Kraef si trovò a giustificarsi:

- No, hai ragione, non potevano, non più...

- Che significa? - chiese Tharios sempre più impaziente.

- I draghi hanno il potere del fuoco, piccolo mio, ma soltanto finché restano a contatto con la Fiamma. Coloro che scelsero di allontanarsi da Pentar persero col tempo la capacità di generare il fuoco dai propri corpi. Gli uomini capirono infine che un drago senza fuoco non era più un nemico temibile e cercarono in ogni occasione di ucciderci, terrorizzati dalle nostre dimensioni. Certo, avremmo potuto contrastarli, ma che senso aveva continuare a combattere e a versare sangue? Così molti di noi decisero di tornare indietro, ma non così alcuni dei draghi più orgogliosi. Siccome erano rimasti in pochi, decisero di rifugiarsi temporaneamente nel continente ghiacciato, per poi tornare alla carica quando i tempi fossero stati migliori. Inutile dire che questi non sono mai giunti...

Tharios rimase in silenzio, poi gli cadde nuovamente lo sguardo sulle sue nuove scaglie.

- Perché le mie scaglie sono diventate come le vostre? Erano scure, di un blu nero come la notte...

La draghessa si mostrò sorpresa e fu Kraef a prendere la parola.

- Noi siamo figli della Fiamma. Lontani da essa ci spegniamo, come fuochi non più alimentati.

Tharios comprese infine. L'oscurità a cui si erano condannati aveva affievolito la luce di cui i draghi vivevano. E, inesorabile, l'avrebbe infine spenta. Questo pensiero lo angosciò.

- Devo tornare. Devo avvertire gli altri di lasciare subito la Terra. Oh... - la consapevolezza gli piombò addosso come un'onda gelida dell'oceano. Se gli altri draghi erano tornati indietro poche centinaia di anni prima, i più anziani del gruppo, come anche suo padre, dovevano per forza conoscere la verità. Continuavano a negare non perché non gli credessero, ma perché ormai, anche se mangiavano e respiravano ancora, erano già spenti.

La voce di Kraef si eresse autoritaria, ma carica di dolore:

- E' il loro orgoglio a frenarli. Non ammetteranno mai di essersi sbagliati e non accetteranno mai di lasciare da perdenti quel mondo.

Tharios ripensò a Lyarna e a tutti gli altri che erano rimasti nel gelo e nell'oscurità. Il suo cuore si riempì di pena per loro, ma un calore piacevole lavò via la sua tristezza.

- Vieni piccolo - lo invitò la draghessa. - Per loro non puoi fare più nulla, ma hai salvato te stesso. Ora la Fiamma può espandersi anche in te e, se lo vorrai, potrai essere un portatore di luce.

- Un portatore di luce?

- Sì, per tutti coloro che non ricordano più la via per tornare.

La draghessa guardò in alto e Tharios distinse nel cielo migliaia di nubi rosse come il fuoco.


“Il volo del drago” - 9 gennaio 2008


Partecipante alla prima edizione dello Zampaconcorso indetto da Zampanera Editore (http://www.zampaneraeditore.it/index.htm)


domenica 23 marzo 2008

Neil Gaiman - Nessun dove


Sono passati alcuni giorni da quando ho terminato di leggere questo libro divertente e scorrevole come un torrente di acqua fresca montana, eppure straordinariamente profondo e delicato nell'affrontare temi difficili come la morte e l'amicizia.
La quotidianità si affianca alla straordinarietà, dando origine a una miscela che confonde e che porta a chiedersi quale delle due realtà sia quella giusta, quella più vera.
Di sicuro l'inventiva di Gaiman è incredibile, riuscendo a rievocare in una Londra banale e grigia un mondo fantastico, letale ma meraviglioso.
La favola del protagonista è bella e condivisa, finché non giunge al termine. Ed ecco che lui chiede di poter tornare indietro, a quella Londra dove "la cosa più pericolosa a cui devi fare attenzione è un taxi che va di fretta".
Ora, immagino che quel passaggio fosse stato messo apposta per far sentire il lettore come una sorta di grillo parlante, di quello che sa che in breve tempo la Londra di Sotto avrebbe fatto sentire la propria nostalgia incontrastabile.
Invece, quando ho letto quella frase, la prima cosa che ho pensato è che sì, è tutto bello, tutto fantastico, ma quanto ci piace alla fine la nostra vita tranquilla, dove ti basta prendere un antibiotico se stai male o aprire un rubinetto per avere tutta l'acqua calda del mondo.
A tutti piace fantasticare su una realtà diversa, ricca di stupore, capace di farci dimenticare la monotonia che a volte piomba inesorabile nelle nostre esistenze, ma quanto saremmo veramente disposti a sacrificare per vivere la favola? Quanto saremmo disposti a rischiare per il brivido del fantastico?
Un libro leggero, carino, ma che ancora mi gira per la testa dopo giorni dalla lettura.
Un ottimo esempio di come anche uno stile ironico e poco ricercato possa plasmare contenuti degni di essere ricordati.

martedì 11 marzo 2008

Lacrime nella pioggia


La pioggia faceva avvertire la sua presenza con lievi ticchettii sul vetro, amplificati dalla stanza vuota e silenziosa, che li mutava in un suono ritmico, regolare. Il letto sembrava particolarmente freddo, notò Rose, e l'umidità filtrava attraverso il vecchio materasso come a volerne impregnare ogni più piccolo recesso. Era una pioggia senza fulmini né tuoni, priva della violenza dei temporali, ma anche della pace dei lenti scrosci autunnali. Sembrava piuttosto il lamento sommesso di un vecchio malato, senza più forza né dignità. O forse assomigliava di più al pianto di un bambino?

Rose ripensò al suo piccolo Steve, che se ne era andato così piccolo, così innocente, portato via dal fiume durante una piena, mentre passeggiava mano nella mano con lei e suo marito Dave. A pensarci bene, era proprio una giornata uggiosa come quella, in cui nessuno avrebbe immaginato uno straripamento del Tirly, così quieto e inoffensivo, ma anche con così poco spazio per contenere le acque impetuose di un temporale estivo. In quei due mesi Rose non aveva fatto altro che vedere il volto del suo bambino di sei anni livido e inespressivo, mentre nella sua testa continuava a sentire il suo lamento, la sua denuncia dell'abominevole ingiustizia che gli era toccata. In realtà il suo corpicino non era mai stato ritrovato e questo non faceva altro che alimentare l'incubo a occhi aperti di Rose.

Le gocce iniziarono a picchiare più forte e la finestra rispose con vibrazioni irritate. Rose sistemò il cuscino, per poi raccogliere le coperte attorno al corpo infreddolito. Dave non era ancora venuto a letto e tutto quello spazio vuoto non tratteneva abbastanza calore per lei. All'improvviso, il libro che stava leggendo le risultò insoddisfacente. La storia le apparve estranea, non in armonia col suo attuale stato d'animo. Dopo aver letto e riletto le stesse righe per una decina di volte, si rese conto che non riusciva ad afferrare il senso delle parole. Sapeva che quando accadeva era il momento di chiudere il libro e, con un sospiro seccato, piegò l'angolo in alto a destra per tenere il segno. Appoggiò il libro sul comodino e spense la luce. Un gesto consueto, istintivo, ma che in quel momento fu fonte di un'angoscia inaspettata. Si rifugiò frettolosamente sotto le coperte di lana accatastate, mentre fuori vento e acqua intonavano il loro canto tragico.

Un colpo secco fece stridere i vetri, che rimasero integri per miracolo. Due mani livide, col palmo appoggiato al vetro, erano apparse alla finestra. Rose non urlò, la sua gola non glielo permise, chiusa in un'apnea paralizzante. Il cuore, dopo aver saltato un colpo, si lasciò andare alla più sfrenata tachicardia e sudore gelido filtrò dai pori della pelle. Le mani fuori dalla finestra si aggrapparono al bordo inferiore dell'intelaiatura, contraendosi nello sforzo di sollevare un peso. Rose non riusciva a scorgere il resto del corpo a cui appartenevano quegli arti, ma poteva vedere le piccole dita sottili che facevano forza sul legno scheggiato. Frammenti di vecchia vernice bianca si staccavano sotto la loro presa, mentre il dorso si inarcava per azione di inesistenti muscoli.

“Non voglio vedere, non voglio, non voglio!”

Rose affondò nelle coperte, testa compresa, raccogliendosi in posizione fetale e stringendo le mani sul capo. Il suono era debole, si udiva appena al di sopra degli scrosci, ma sapeva che quel lamento tetro era reale, non più un effetto della pioggia. Forse, non lo era neppure prima. Piangeva, piangeva e spingeva. Rose avvertì una convulsione di terrore lungo il corpo, mentre realizzava che quell'essere, qualunque cosa fosse, voleva entrare nella stanza.

Un altro colpo sul vetro, più forte del precedente. “Mio Dio, sta veramente tentando di sfondarlo?”

Da un angolo nascosto, la sua coscienza voleva rassicurarla, dicendole che non poteva farcela, che quella creatura non poteva avere la forza necessaria per infrangerlo. Eppure i palmi scarni continuavano a battere incessantemente, mentre vibrazioni distorte rimbalzavano nella stanza. Rose non poté fare altro che premere le mani sulle orecchie, per non udire quel pianto di fame e di terrore. Non riusciva più contrastare i brividi, mentre il panico la strangolava da dentro, afferrando con crudeltà il cuore ormai impazzito, ormai costretto ad arrendersi.

Il vetro, in uno schianto stridente, si frantumò. Rose trattenne il respiro, ma il battito del suo cuore le martellava in testa. Non sentì nulla per un tempo indefinito, poi il tonfo sul pavimento distrusse ogni sua speranza. Sentì frugare sul bordo del letto e tutta l'aria tenuta compressa nei polmoni esplose in un urlo talmente straziato che le fece male al petto.

“Daaaaave! Daaaaave! Ti pregooooo!”

La gelida mano bianca trovò uno spiraglio tra le coperte e la toccò. Una carezza leggera, sulla pelle lasciata nuda dalla maglia del pigiama troppo corta. Rose smise di urlare e ascoltò rapita il respiro lento e rantolante della creatura dietro di lei. L'essere, con lentezza sfinente, si sollevò sul letto, le si avvicinò, poggiando la testa dietro la sua spalla. Lei avvertì l'odore di foglie marcite dalla pioggia, odore di fango e di morte. Ma si quietò, perché conosceva quel respiro.

“Mamma”, sussurrò la creatura. La voce aveva perso il timbro limpido e squillante, era divenuta gorgogliante, melmosa. Ma non poteva non riconoscere lo stesso tono con cui il suo piccolo Steve la chiamava a ogni ora del giorno.

“Piccolo mio.”

Parlò senza rendersene conto e, altrettanto inconsciamente, si girò. Il suo viso, grigiastro e putrefatto, la riempì di orrore, ma Rose non urlò questa volta. “Hai fame, piccolino?”, gli chiese con la dolcezza che solo una madre può riservare al proprio bambino. La creatura osservò la mano che le veniva protesa davanti e, senza esitazione, strappò un brandello di carne dalla mano di Rose. Ancora una volta, lei non si lasciò sfuggire neanche un gemito. Il dolore non era nulla a confronto della gioia di nutrire la propria creatura.

Dei passi nel corridoio la fecero tornare alla realtà. Suo marito stava venendo a letto e sarebbe di certo rimasto inorridito, non avrebbe capito il miracolo a cui lei stessa stava assistendo. Guardò il suo piccolino che continuava a straziarle la carne, le ossa della mano ormai esposte, e decise che non avrebbe mai permesso a nessuno di portarle via ciò che le era appena stato restituito. Fece una carezza alla testa glabra, incurante della pelle grigia e untuosa, poi si alzò dal letto, consapevole dello sguardo affamato dell'essere.

“Torno subito”, sussurrò con tenerezza.

Dave aprì la porta e si trovò davanti sua moglie, in piedi e... con la mano sinistra scarnificata e gocciolante sangue. “Rose, mio Dio Rose, che ti è successo?”, gridò con tutto l'orrore che il suo animo era stato in grado di evocare.

Lei sorrise. Non disse nulla, ma sorrise placidamente e con una luce euforica negli occhi. Dave pensò che la depressione per il lutto avesse lasciato il posto alla follia e fece per abbracciare la moglie, tentando di riportarla alla ragione. Ma Rose alzò di scatto il braccio destro contro di lui, con la mano che reggeva un oggetto che Dave non ebbe il tempo di identificare. Non vide più nulla, sentiva solo il pavimento di marmo freddo sotto di lui e il dolore bruciante che si spandeva nella sua testa a ondate strazianti. Balbettò il nome della moglie e la sentì accovacciarsi di fianco a lui. Tentò di sollevare la testa, ottenendo in cambio soltanto una fitta ancor più lacerante. Solo in quel momento lo vide, piccolo, livido e con due occhi bianchi di morte. Avrebbe voluto gridare, ma il sangue dalla fronte gli colò in bocca, provocandogli conati di vomito.

Vide Rose porgere la mano straziata alla creatura, che si avventò su di essa, staccando muscoli e cartilagini. Sua moglie non stava urlando, anzi, sorrideva con gli occhi bagnati di lacrime di commozione. Poi la vide indicarlo, mentre diceva qualcosa come “Vai da papà, anche lui vuole darti la pappa. Devi avere così fame, piccolo mio”.

Dave avrebbe voluto svegliarsi da quell'incubo, ma il dolore al capo gli diceva che non c'era modo di sfuggire all'orrore. L'essere si avvicinò camminando in modo innaturale, come se non potesse coordinare il movimento di tutti i muscoli. I suoi passi incerti lo rendevano ancora più grottesco, ma il suo sguardo era la cosa più inquietante, così perso nel nulla, come se non fosse importante vedere, quando bastava seguire l'odore del sangue. Vide la bocca nerastra aprirsi mentre si abbassava sul suo viso, scoprendo denti giallastri e scheggiati. Dolore si aggiunse al dolore, quando sentì quelle piccole zanne affondargli nel viso. La creatura gli strappò con un singolo movimento l'intera guancia, lasciando scoperte le arcate dentarie. Questa volta Dave riuscì ad urlare, in un'esplosione di sofferenza e di paura. Forse qualcuno l'avrebbe sentito, forse i vicini sarebbero accorsi. Ma la mano di Rose scese di nuovo a colpirlo. E il dolore cessò.


Fuori aveva ormai smesso di piovere e grosse gocce si tuffavano a intervalli regolari dalle grondaie e dai tetti. Rose sorrise. Non c'erano più lamenti, non c'erano più lacrime nella pioggia.


“Lacrime nella pioggia” - 29 novembre 2007


25° posto al concorso "BUONANOTTE E SOGNI D'HORROR", I edizione 2007, organizzato da Sognihorror.com (www.sognihorror.com)


mercoledì 5 marzo 2008

H.P. Lovecraft - Tutti i racconti 1923-1926


La lettura di questo secondo volume è stata decisamente faticosa, non solo per la lentezza con sui si fa leggere Lovecraft, ma anche per la difficoltà nell'affrontare certi brani.
Questa volta voglio fare una recensione come si deve, per cui lascerò un piccolo commento per ogni singolo racconto.

I topi nel muro
L'ho trovato intrigante, anche se non così esaltante come l'introduzione aveva lasciato intendere.

Innominabile
Niente male. Fin dal primo libro, trovo che i racconti legati ai temi sepolcrali siano quelli più ispirati. Si respira un'atmosfera che mette i brividi, molto evocativa.

La ricorrenza
Stupendo, anche se, come spesso accade per questo genere di racconti, preferisco la prima parte più intuitiva e misteriosa, rispetto ai finali pieni di elementi espliciti e privati del fascino del "non detto".

La Casa sfuggita
L'ambientazione familiare dona ai racconti horror quel tocco in più che provoca un brivido quando si osserva coi proprio occhi il luogo della narrazione. E' un espediente che piace molto anche a me, anche se abusarne non va mai bene.

Orrore a Red Hook
Non mi ha esaltata particolarmente. Trovo che nei racconti lunghi Lovecraft si perda un po' dietro a troppi particolari, che decisamente ama troppo nel mio modesto parere.

L'incontro notturno
Molto carino, una buona atmosfera.

Nella cripta
Assolutamente fenomenale! L'ironia e la tragicità della situazione si sposano alla perfezione in un racconto che posso definire un piccolo capolavoro.
Mi chiedo come mai Lovecraft abbia lasciato trasparire così poco spesso questa sua vena ironica, che quando invece si esprime è in grado di dar vita a brani incantevoli.

La discesa
Difficile darne un giudizio, per il fatto che è incompleto. Si comincia però a intravedere la fitta rete che Lovecraft ha intessuto tra i vari elementi del suo mondo.

Aria fredda
Allucinante e imprevedibile, anche questo racconto mi è piaciuto decisamente. A volte mi immagino le facce dei protagonisti quando si trovano di fronte alle realtà contorte create dall'autore e in questo caso devo dire che ho riso più di una volta al pensiero del poveraccio che si è trovato in una situazione simile!

Il richiamo di Cthulhu
Condizionata dalle aspettative, in questo racconto ho trovato niente di più niente di meno di ciò che mi immaginavo.
E' stata più che altro una lettura istruttiva, che ha cominciato a darmi i primi veri elementi per comprendere i miti di Cthulhu.

Il modello di Pickman
Niente male, decisamente ben pensato (forse perché sempre legato alle tematiche che scaturiscono più spontanee dalla penna di Lovecraft). Da leggere e da tenere bene in mente in vista del racconto più lungo al termine del libro.

La chiave d'argento
Uno dei pochi racconti legati al mondo onirico che mi ha intrigata abbastanza. Nel primo libro ce n'erano stati diversi e quasi nessuno mi era piaciuto particolarmente. Ma questo approccia l'argomento da tutta un'altra prospettiva e difatti l'ho trovato molto più leggibile.

La casa misteriosa lassù nella nebbia
Anche questo mi è piaciuto parecchio. Tocca tematiche a me molto vicine, dall'alpinismo ai miti oceanici. E' finito troppo in fretta!

Alla ricerca del misterioso Kadath
Terminare questo racconto è stato un travaglio inenarrabile. Già i racconti di questo ciclo non mi prendono più di tanto, questo mi è sembrato veramente interminabile.
Ho apprezzato molto i riferimenti a racconti precedenti e Pickman è diventato decisamente il mio mito personale, ma per il resto gli avrei dato fuoco.
Sorpresa però nelle ultime due pagine, scritte con un ritmo decisamente diverso, che mimano veramente il risveglio confuso e frettoloso da un lungo sogno che sembrava non avere mai fine.
Il dubbio che mi rimane è: avrà scritto apposta in maniera così pesante, per dare proprio l'impressione dei tempi dilatati e incalcolabili dei sogni?

Non commento i racconti posti in fondo al libro, ovvero le revisioni dei lavori di altri, ma vorrei lasciare una piccola nota per il saggio di Peter Cannon "Una cronologia al di là del tempo", un lavoro veramente curioso e che varrebbe la pena di riprendere in mano una volta terminata la lettura di tutti e quattro i libri.